Tutto in un secondo | Livello D

Partecipanti: Aiko Netsushi | QM: Utino (Autogestita)

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    Demone velatore

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    Un po' da qui e un po' da là

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    La vita è fatta di un'infinità di attimi, molti trascurabili, alcuni fondamentali. Riuscire a trarre ispirazione dalle proprie esperienze e dal proprio passato è fondamentale per una cantautrice, soprattutto se non più giovanissima. Rappresentare in musica la realtà che si ha attorno non è semplice, ma è un'ambizione a cui qualcuno non vuole rinunciare, se vuole lasciare un segno nel mondo. Anche perché "il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista".
     
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    Tre violini partirono subito con energia, con volute rapide e "cattive", accompagnate da una batteria altrettanto sprintosa. Poche battute, ma che volevano dare subito un'impronta decisa a quell'inizio di disco; poi una piccola pausa, un istante solo di silenzio interrotto subito dopo da uno degli archi di prima, che volteggiò con più pace, mentre le percussioni sotto stabilivano un ritmo simile ad una marcetta. Risentendo il pezzo una volta concluso il mixaggio non potei che dirmi soddisfatta al massimo. Era proprio l'impatto che volevo dare. Il presidente, Juan, accompagnò con un raro sorriso l'ascolto, mentre io non potei non sussurrare le parole della canzone nel momento in cui intervenne la mia voce dall'altoparlante.
    Adesso che ho sangue infetto...
    nessuno vorrà più leccare le mie ferite.

    Un oboe assisteva la parte vocale, ma a dare spessore alla frase musicale era il violino, che con un crescendo arrivò a sottolineare l'arrivo del bridge. A quel punto si univano a lui gli altri due strumenti uguali, aumentando ancora tensione e ritmo, in corrispondenza di parole forti.
    Ho superato anche l'inverno
    ed ho pregato a lungo.
    Ho superato anche l'inverno
    ed ho cantato...

    Il climax però non arrivò, non ancora. Un grido strozzato sul nascere, un ritorno all'atmosfera sospesa dell'inizio, per costruire ancora tensione, per dare spessore alla sofferenza del testo.
    Adesso che ho tanto freddo
    potrò contare sul caldo abbraccio di due coperte.
    E ho trovato tutto il vuoto
    del mondo in una carezza
    di compassione.

    La quiete sospesa si faceva in poco tempo tempesta, montando quasi rabbiosa nel bridge, quasi identico a quello precedente, ma stavolta non strozzato nel finale.
    Ho superato anche l'inverno
    ed ho pregato a lungo.
    Ho superato anche l'inverno
    ed ho cantato a lungo!!

    I sentimenti e la passione della protagonista del testo non esplosero però in un urlo disperato, ma si sublimarono in qualche attimo di silenzio, in cui la musica fu l'unica padrona. Diverse volute di violino dominarono la scena per un paio di battute, lasciando infine spazio alla dichiarazione fondamentale di quella canzone.
    E non sono per niente stanca!
    Non sono per niente stanca!
    Non sono per niente stanca!

    Quello non era un testo semplice, nemmeno per me. Era un grido di determinazione, ma non era autoreferenziale come in passato era sovente accaduto ai miei pezzi. Avevo preso spunto da molte storie, dalle vite di donne che avevano sofferto molto ma si erano rimesse in piedi. Persone forti, forse passate sull'orlo della rottura, ma che non si erano piegate alle difficoltà della vita. Una di esse era sempre al mio fianco, ero riuscita a sposarla. Il dolore che avevo letto negli occhi di Draig durante l'estate era un fantasma di cui temevo sempre il ritorno. L'inverno che ritornava sempre nel testo era probabilmente ispirato proprio ai mesi che avevamo appena superato, alla paura per il suo malore e all'instabilità che ci aveva provocato. Il freddo che lamentava la protagonista del testo mi era venuto in mente pensando al periodo in cui lei non c'era, in cui il nostro letto era così vuoto per me e in cui lei soffriva da sola nella sua stanza di ospedale, senza che potessi fare niente per lei. Ma per quanto questo esempio fosse il più vivo, il più sentito, non era di certo l'unico ad aver animato la mia scrittura. Avevo composto pensando a Yuya e Natsuki, che tanto avevano combattuto e sofferto, per motivazioni diverse ma affini. Loro erano le mie più care amiche, volevo loro un bene dell'anima, eppure non ero riuscita più di tanto ad aiutarle, non quanto avrei voluto almeno. Quella canzone era diretta anche a loro, nella speranza che riuscissero a farsi forza, a trovare modo di andare avanti verso un futuro migliore, verso quello che avrebbero meritato. E c'era un'altra dedica in quel pezzo, ad una persona che forse non sarei riuscita a raggiungere fisicamente, che probabilmente non avrebbe mai sentito quella canzone. Tora, il capitano della mia squadra nel Paese del Tè, della battaglia contro gli zombie. La donna che aveva visto l'uomo che amava morirle davanti agli occhi e che avrebbe dovuto crescere il loro figlio da sola. Forse non l'avrei mai più incontrata, forse non avrei mai saputo cosa sarebbe stato di lei, ma era rimasta nel mio cuore e nei miei pensieri. Una donna forte, un esempio da cui trarre ispirazione, ma che forse avrebbe avuto bisogno di supporto in questi momenti bui. La mia canzone voleva essere proprio quel supporto e anche se rischiava di non giungere mai alle sue orecchie non importava, era colma di quell'energia e di quel desiderio di essere utile.
    Adesso che sto in questo inferno
    Angeli, amici e fratelli hanno preso il volo.

    Dopo quel climax di energia era ritornata la calma evocativa di inizio brano. Alcune battute in cui i violini si sforzavano di dare un'eleganza maggiore al brano, prima del ritorno della voce, accompagnata di nuovo dal tempo di marcia. La solitudine in cui si precipitava nei momenti peggiori della nostra vita era una cosa che conoscevo fin troppo bene e anche se apparteneva al passato il suo ricordo era vivido in me. Forse quel testo non era perfetto, non avrei saputo dirlo con certezza, però era intenso, vissuto, richiamava qualcosa di profondo. Per questo mi ero concentrata tanto sull'aspetto strumentale, per creare un'equilibrio che si avvicinasse al mio ideale di energia e determinazione. Quella canzone era un inno alle capacità di resistenza delle donne e volevo che fosse quanto più "tosto" possibile, per avvicinarsi ai modelli da cui avevo tratto ispirazione.
    E non sono per niente stanca!
    Non sono per niente stanca!
    Non sono per niente stanca!

    Dopo il "ponte" ci fu una ripetizione di ritornello e poi, dopo una battuta di pausa, un'altra ancora. A ribadire il concetto, a dirlo forte e chiaro. Senza urlarlo, però, perché la forza d'animo non si nota da gesti eclatanti o grida di rabbia, bensì dalla capacità di andare avanti imperterriti, insistendo ancora e ancora. Ed era quello il mio invito, volevo incoraggiare gli altri, come altri avevano incoraggiato me nei momenti difficili. Un obiettivo ambizioso, certo, ma quello era anche il tono generale di quel mio secondo lavoro. Forse non sarebbe stato all'altezza di quello che stavo cercando di fare, ma se non altro sapevo di averci messo tutta me stessa.
    Un breve silenzio accompagnò la fine della prima traccia, lì nella saletta in cui mi trovavo insieme al presidente Nappa e al direttore artistico. Quello era un passaggio fondamentale, era la prima volta che ascoltavamo il lavoro nella sua interezza, dopo mesi passati a costruirlo pezzo per pezzo. Dovevamo capire qual era la visione di insieme e il passaggio dalla prima alla seconda canzone era quello che turbava più i miei due superiori. Era in effetti ardito, ma l'avevo fortemente voluto.




    Amser!
    Amser!
    Amser!

    La quiete nella sala fu scossa dunque dalla partenza della batteria. Potente e quasi ossessiva. Ad accompagnarla una voce, che ripeteva con la stessa determinazione un'unica parola. Non era però la mia voce, bensì quella di un ospite speciale. Si chiamava Mada, era il tastierista di una band con cui mi era capitato di suonare qualche volta. Eravamo andati sin da subito d'accordo, ma l'idea di una collaborazione nacque piuttosto per caso. Gli avevo parlato di un testo che avevo quasi pronto ma per cui non riuscivo a trovare una musica che mi convincesse; lui se lo era fatto mostrare e in pochi istanti mi propose un arrangiamento molto suggestivo. Del tutto diverso dalle cose che facevo di solito, ma mi aveva affascinato talmente tanto che insistetti per poterlo includere nel disco.
    Il ghiaccio si confonde con il cielo con gli occhi
    e quando il buio si avvicina...
    vorrei rapire il freddo in un giorno di sole
    che potrebbe tornare in un attimo solo.

    Dopo i primi attimi, in cui c'erano solo la batteria e la voce di Mada, si era unita anche una chitarra per fare pochi semplici accordi ripetuti. Questa introduzione strumentale era durata più di un minuto, con l'ingresso ad un certo punto di una parte di pianoforte che anticipava l'inizio del testo vero e proprio. Questo partiva dipingendo con poche pennellate un'atmosfera glaciale, chiarita appieno solo dal titolo del pezzo. Shiberia, si chiamava così la canzone, riferendosi ad un famoso villaggio nell'estremo nord del Paese della Neve. Un luogo molto particolare, in cui ero stata un paio di volte a diversi anni di distanza. L'ambiente gelido rendeva la vita pressoché impossibile, ma quella natura ostile, quasi brutale, aveva un fascino assoluto ai miei occhi. Quella regione era anche tristemente celebre per la presenza di un carcere considerato inespugnabile, ma non era su quello che mi ero concentrata nel momento di scrivere il testo.
    I nostri occhi impauriti nelle stanze gelate
    al chiarore del petrolio bruciato.
    E oltre il muro il silenzio...
    oltre il muro solo giacchio e silenzio.

    Le ultime tre parole furono ripetute un paio di volte, in maniera quasi sfumata, in modo da accentuare ancora di più quell'atmosfera rigida, evocativa. E ogni qual volta la mia voce finiva quelle piccole strofe, ritornava quella di Mada, con il solito "Amser" ossessivo. Era stato lui a chiedermi di trovare una parola che potesse rientrare bene nella metrica e dare quel senso di oppressione che serviva per completare il quadro. Alla fine avevo scelto "tempo" in lingua barbara, perché mi sembrava perfetto per più di una ragione, scelta apprezzata anche dal mio collaboratore.
    Aspetterò questa notte pensandoti
    nascondendo nella neve il respiro.
    Poi in un momento diverso dagli altri
    coprirò il peso di
    di queste distanze!

    Ancora una volta ripetei più volte le ultime tre parole, però senza sfumarle. Al contrario accentuai particolarmente la parola "distanze", cercando di comunicare il disagio forte della protagonista della storia. Quella canzone era un modo di cercare di rompere gli schemi, di stupire gli ascoltatori. Raccontare con poche pennellate la storia di un amore tormentato, ambientato in un luogo desolato e distante, a metà tra realtà e leggenda. Il tono cupo, il ritmo incalzante. Era decisamente qualcosa di diverso dal solito.
    Di queste distanze.
    Tutto sommato ero soddisfatta del risultato finale, mi dissi mentre ascoltavo terminare il pezzo. A sorpresa lo fu anche il presidente, che disse che era una scommessa curiosa. Non aggiunse altro, ma più in là mi avrebbe rivelato il suo pensiero per intero. Sul breve termine non era quello il brano che avrebbe dovuto trascinare le vendite e da quel punto di vista non avrebbe influito né positivamente né negativamente sul presente. Nel lungo periodo però poteva aprirmi prospettive interessanti, dal punto di vista artistico, quindi era convinto fosse stata un'esperienza che poteva essere molto proficua. Un'analisi intelligente, mi dissi, ero contenta che un tipo come lui fosse il mio Presidente, era sia pragmatico che competente in campo artistico, sarebbe stato in grado di fermare i miei eccessi e valorizzare quello che potevo esprimere.
     
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    Dopo il caos e la rigida potenza di Shiberia ci fu il solito breve momento di silenzio. Qualcosa di diametralmente opposto stava per iniziare e mi scoprii tesa ad aspettarne la partenza. Era stato il pezzo che aveva fatto partire tutto, quello che mi aveva fatto capire che potevo e dovevo sforzarmi per incidere un nuovo disco.

    Un violino partì da solo, stridulo e appassionato, a chiarire subito l'atmosfera sognante che avrebbe egemonizzato la canzone. Avevo usato una tecnica di esecuzione tipica del Paese del Mare, appresa tanti anni addietro ma usata raramente in vita mia. Quello era anche un modo di far capire che l'orizzonte narrativo si era spostato radicalmente, che quello che avrei raccontato era ambientato in un luogo più vicino e meno noto. L'isola di Jiro, che dava il titolo al pezzo.
    Al soffio lieve del primo violino se ne unì un altro, che dopo una breve convivenza lo sostituì a dare corpo alla melodia, sempre sospesa e quasi onirica.
    E' il sole, amici, è il sole
    che disegna le lontananze,
    che accarezza uomini e cose,
    uomini e cose, sì.

    Il paesaggio era quello dell'alba ed era ispirato a qualcosa che avevo visto con i miei occhi pochi mesi prima. Quel piccolo viaggio che avevamo fatto io e Draig e che aveva illuminato la nostra vita, riportandola a prima della grande paura di inizio inverno. La gioia di stare insieme, senza preoccupazioni, in un luogo incontaminato e pacifico. Era qualcosa di indescrivibile a parole, per questo avevo cercato di metterlo in musica, per dimostrare tutta la mia gratitudine.
    E' il sole, amici, è il sole
    che sfiora l'orizzonte
    e tenue ci rincuora
    e dolce ci rincuora.

    L'arrangiamento era mutevole, ma per tutta quella prima parte si teneva piuttosto minimalista. La quiete era quella tipica dei mattini in quell'isola benedetta e la chitarra accarezzava da sola le parole durante le strofe, mentre i violini entravano nei momenti in cui esse finivano, per disegnare quell'atmosfera dolce che avevo ancora nel cuore a mesi di distanza.
    E ci sono sguardi ad ogni angolo
    ad osservare l'innocenza;
    ed ogni albero è un minareto
    è un gioco del fato, sì.
    E porto gli stracci con onore
    e c'ho sorrisi da regalare
    per viandanti d'oltremare,
    per viandanti da salutare.

    Una natura magnifica e persone davvero piacevoli, umili e gentili. Gente di mare, abituata ad avere a che fare con turisti, marinai e ogni sorta di viaggiatori. Uomini accoglienti e in grado di farti sentire a casa anche solo per pochi giorni. Era tutto così bello che pensai persino di trasferirmi lì, se non fosse stato un posto troppo lontano da tutto quello che ci serviva per vivere come volevamo avrei preso anche in considerazione l'idea seriamente. Draig mi confessò di avere avuto pensieri molto simili sulla questione.
    A cada pueblo un poco de amor,
    un poco de amor.
    A cada pueblo un poco de amor,
    un poco de amor.
    para usted, mi señora
    A cada pueblo un poco de amor,
    un poco de amor.
    A cada pueblo un poco de amor,
    un poco de amor.

    Il passaggio al linguaggio del Paese del Mare determinava l'inizio di un cambio nello spirito della canzone. La tensione si andava pian piano ad accumulare, il ritmo si faceva più rapido, con l'inserimento anche delle percussioni. L'energia si accumulava, fino ad arrivare ad un'esplosione di gioia.
    Vamos!!
    Vamos!!
    Vamos!!
    Vamos!!
    Hey!

    Il violino accompagnava impetuoso la voce, sembrava quasi impossibile da fermare. Mi sarei divertita come una matta a suonare questo pezzo in concerto, ne ero sicura. Dovetti avere un sorriso assurdo sul volto mentre la riascoltavo, visto quanto ridacchiò Juan Nappa. Non ci potevo fare niente, semplicemente adoravo quella canzone, come sempre la mia espressività era al massimo quando scrivevo di Draig o di nostre esperienze.
    Gli ultimi versi furono preceduti da diverse battute solo strumentali, con due assoli prima di violino e in seguito di chitarra. Ero stata fortunata, perché il presidente mi aveva messo a disposizione musicisti di prim'ordine, che avevano reso quelle parti proprio come le avevo in mente, alla perfezione.
    Esta noche, amiga mìa!
    A cada pueblo un poco de amor!
    A cada pueblo un poco de amor!
    Poco de amor...
    Poco de amor...
    Poco de amor...

    Il testo si concluse dunque con la ripetizione delle ultime parole, sfumate quasi fossero un'eco lontana. Del resto erano così per me, erano il lascito di quel viaggio magnifico. Esso aveva aggiunto solo un poco di amore nella nostra relazione, una goccia in un preesistente mare, ma il suo effetto benefico sarebbe perdurato a lungo in noi. Per questo avevo voluto tentare di immortalarlo in una canzone.
    Nel momento in cui la mia voce terminò di risuonare i violini danzarono ancora per una battuta, poi di nuovo silenzio. Il cenno di assenso dei due uomini con me nello stanzino mi fece capire che il passaggio era piaciuto. Forse non sarebbe stato il pezzo con cui avrei potuto aggredire le classifiche, ma avrei cercato di renderlo un mio cavallo di battaglia nei live, proprio per l'energia che era in grado di farmi sprigionare e per il legame emotivo che avevo con quel pezzo.



    Fu una fisarmonica a ripartire, con poche note lente. Qualche breve accordo di pianoforte accompagnò questa intro, prima che le percussioni entrassero in scena, dettando un ritmo allegro e cadenzato, che avrebbe dominato tutto il brano.
    Ho già detto tutto nella lettera,
    se non parto tradisco la mia identità.

    Il testo partiva quasi subito, ma non erano parole mie. Quella era l'unica cover contenuta nel disco, era una canzone che mi riportava indietro nel tempo. Aveva trent'anni, forse anche di più, ma l'avevo sentita per la prima volta una decina di anni fa, a Taki. Era un racconto dolceamaro, accompagnato da una musica lieve. Il mio arrangiamento era diverso dall'originale, ma volli cercare di mantenermi vicina all'anima con cui doveva essere stato composto.
    Il mondo è là fuori che aspetta me
    e ormai sento questo posto come un carcere.

    Le parole ballarono in punta di piedi sulle note di pianoforte. Descrivevano con poche, piccole pennellate l'esigenza di fuga da una realtà troppo stretta, all'epoca in cui la sentii avevo appena iniziato la mia vita nomade e quindi non potevo non innamorarmi di questa canzone. E la presentazione del protagonista, che avveniva nel ritornello già in arrivo, mi aveva reso quel brano ancora più vicino.
    Sono un ragazzo di nome Paivi
    e non so se essere Romeo o Giulietta.
    Sono un ragazzo di nome Paivi
    e voglio solo baciare la tua bocca perfetta.

    Si chiamava Paivi, un nome chiaramente femminile, ma si dichiarava un ragazzo, una ambiguità di sicuro voluta. Parlare di identità di genere in maniera così diretta, parlare di sessualità diverse dalla "norma", doveva essere stata una grande scommessa da parte del gruppo che aveva scritto la canzone, soprattutto visto quanto Taki era retrograda. Una scommessa vinta, da quello che sapevo. Si chiamavano "Levi", come un antico profeta e purtroppo non avevo avuto modo di conoscerli di persona, ma i pochi loro brani che avevo sentito erano molto belli, inni agli ultimi e agli sconfitti, ma non tetri, bensì scanzonati e allegri. Far loro un omaggio era qualcosa che volevo fare da tempo e quel disco era proprio l'occasione giusta.
    E anche stanotte è una notte insonne,
    fisso il soffitto ma lui non mi risponde.
    E sento ancora i sussurri in testa,
    per loro l'inferno è tutto quel che mi resta.

    Per quella seconda strofa tornava protagonista la fisarmonica, prima scomparsa. Il mio intento era dare leggerezza a parole che in realtà nascondevano un peso ben maggiore. Non potersi sentire a casa da nessuna parte, essere rifiutati da tutto il mondo solo perché non si vuole rinunciare a essere se stessi, potevo solo immaginare quanto fosse doloroso. Ma quella lietezza non era follia, non era resa. Era resistenza. L'odio non deve vincere contro l'amore e il protagonista lo dichiarava di nuovo con semplicità e genuinità nel ritornello. Un lungo assolo di pianoforte seguì a questo, gioioso e vitale, prima dell'arrivo della terza e ultima strofa.
    Lascia pure che ci fissino,
    in fondo è questo il nostro destino.
    La distanza fa male, ma
    è il nostro legame che per sempre vivrà.

    L'ultima frase fu quasi recitata, più che cantata. Durante essa la musica si chetò del tutto e in questo modo le parole furono sottolineate in maniera più che evidente. Mi piaceva pensare fosse una dichiarazione d'amore, di un qualcosa più forte della paura, delle circostanze, degli impedimenti della vita. Non sapevo cosa intendessero davvero gli autori, ma adoravo quel finale aperto, permetteva all'ascoltatore di immaginare la storia che più preferiva.
    Con il tintinnio di una nota acuta di piano la parte strumentale si riprendeva subito, riacquistando l'energia e il ritmo di prima e conducendo al ritornello finale.
    Sono un ragazzo di nome Paivi
    e non so se essere Romeo o Giulietta.
    Sono un ragazzo di nome Paivi
    e voglio solo baciare la tua bocca perfetta.

    Fu ripetuto tre volte, sempre più piano, finché voce e musica non si spensero insieme, portando al silenzio. Quando avvenne, nella piccola saletta, fece un cenno con il capo verso il direttore artistico. Quando gli avevo chiesto di poter incidere una cover di quel pezzo mi aveva guardato di traverso e probabilmente mi aveva odiato anche un po', visto che per ottenere il permesso era dovuto andare fino a Taki, dalla casa discografica che deteneva i diritti dei Levi. Il sorriso che mi fece durante l'ascolto, però, mi fece capire che a conti fatti doveva ritenere positivo l'esito dello sforzo fatto. Era una brava persona ed era molto abile nel suo lavoro. Ero stata circondata da professionisti di primissimo livello ed era solo grazie al loro lavoro che quell'opera che portava il mio nome era venuta esattamente come volevo io. O forse persino meglio delle attese.


    L'ultima canzone necessita un pochino di spiegazioni. Innanzitutto la cantante è Mariska, ovvero colei che dà la voce ad Aiko. Era da molto che volevo farlo. Questa versione è una cover di una canzone anni '80, ho cercato di tenermi quanto più possibile vicino e fedele alle traduzioni del testo che ho trovato qui (mi sono preso un po' di libertà ovviamente, come ad esempio mettere al presente il ritornello). La cosa divertente è che conoscevo da una quindicina d'anni questa canzone, ma è solo grazie a questo post che l'ho capita fino in fondo, quindi sono decisamente un bimbo felice.
     
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    Il silenzio fu rotto da un kokyū, uno strumento ad arco tradizionale delle regioni del Nord. Lo avevo scelto per dare un ulteriore sapore esotico alla canzone, come del resto era tipico di questo disco. Non possedevo questo strumento, né lo conoscevo fino in fondo, motivo per cui avevo scritto la musica di questo pezzo a quattro mani, insieme ad una giovane pianista di Yuki che aveva suonato con me nel primo disco e che si era trasferita da poco anche lei a Kaiyo. Ed era in effetti il pianoforte ad unirsi al primo strumento dopo poche battute, disegnando una melodia principale sognante, la cui evocatività era aumentata proprio dalla presenza di quell'arco. Un arrangiamento ricco, quasi barocco, che ritenevo si accompagnasse bene a parole profonde.
    Un'alba cremisi
    illumina tutto,
    presente e passato
    come l'ho immaginato.

    La melodia era accompagnata da semplici accordi di chitarra, a legare la musica e a ritmarla meglio in corrispondenza delle parole. Esse erano rivolte alla Dea del Sole, anche se in maniera non esplicita, e per quanto fossero state scritte prima dell'incontro con Amaterasu non potevo dire che esse non fossero state ispirate anche da questo evento.
    Non è forse troppo per me?
    Più di quanto possa fare?
    Ti prego insegnami
    come posso vivere
    anche con la mia debolezza!

    Avevo rivolto tante volte quella preghiera agli Dei, per quanto sapessi che dovevo trovare io la mia strada sentivo di aver bisogno di una guida. Ero solo una misera ragazzina con un obiettivo più grande di sé e poche idee su come andasse realizzato, quindi spesso mi sentivo frustrata da questa realtà difficile. E di conseguenza con l'inizio della preghiera la musica si illuminava, aumentando di intensità e di calore, soprattutto grazie al ruolo del kokyū.
    Lasciarmi sporcare dalla vita,
    sopportando il mio dolore
    e la paura di perder tutto quanto,
    così questa canzone di verità
    sarà la guida del mio cuoreee.

    Accettare la propria umanità, accettare la propria limitatezza, non era per niente semplice per chi viveva di grandi ideali. Lo ero stato per me, quando avevo accettato le responsabilità di Sacerdotessa ma anche quando avevo rinunciato alla mia vita di nomade per amore di Draig.
    L'intensità della musica a questo punto diminuiva, riprendendo l'inizio del pezzo in maniera quasi identica.
    E il dubbio sempre rimane,
    su cosa sia prezioso per me.
    E rischio di trascurare
    le piccole cose
    come i sorrisi gentili degli altri.

    Grandi pensieri, grandi preoccupazioni, sono le cose che possono paralizzarci e farci smettere di guardare la vita con positività. In qualche occasione mi era capitato, ma per fortuna avevo saputo uscirne e in questa canzone cercai di metterci quella parte di me. Forse era un po' troppo autoreferenziale come testo, ma mi piaceva molto e speravo potesse essere apprezzato anche da altri, aiutarli a superare periodi bui, che presto o tardi capitano a tutti.
    E se l'eternità
    con il suo oscuro terrore
    cancellerà il mio dolore
    e l'oblio mi porterà,
    ti chiedo di svegliarmi
    e guardare con me i sogni passati,
    così questa canzone di verità
    sarà la guida del mio cuoreee.

    Una volta raggiunto il climax ritmico la musica non si azzerò come aveva fatto prima, ma incalzò ancora, ripetendo una volta quella sorta di ritornello e poi avviandosi verso la conclusione del pezzo, con un breve inno all'imperfezione che precedeva la fine quasi improvvisa sia del testo che della musica.
    Sporcami la vita,
    ti prego sporcala per me,
    così questa canzone di verità
    sarà la guida del mio cuoreee.




    Quando...
    Il silenzio fu interrotto da quella parola sola, che diede il via al pezzo successivo. Si passava da un estremo all'altro, dalla strumentazione ricca e viva dell'ultima canzone ad un arrangiamento scarno e secco, quasi brutale.
    Quando ancora tremo
    poggio la mia mano
    su questo terreno.

    Solo poche note di organo, a descrivere un accompagnamento lieve e sognante, la potenza espressiva era lasciata interamente alla voce. Le parole del testo erano quanto mai personali, ripercorrevano quanto mi era successo diversi mesi prima.
    E per
    la millesima volta
    lo chiamo a me,
    ormai sconvolta.

    Quel lui che citavo nel testo, di cui parlavo, altri non era che Corvo. L'uomo che era morto durante la battaglia nel Paese del Tè, l'uomo che non ero riuscita ad aiutare, lo stesso che vedevo nei miei incubi spesso e che ogni volta non riuscivo a salvare. La canzone parlava di quella guerra, della mia guerra.
    Prima dell'ultima preghiera
    ricordo ogni faccia straniera.
    I segni lasciati sul mio corpo
    da ogni luogo che non scordo...
    che non scordo.

    All'organo si era unita una nuova parte di accompagnamento, qualcosa che avevo sempre sognato di mettere in un mio pezzo: un coro. Per il momento cantavano piano, in modo da esaltare la mia voce facendole da contorno. E quella scelta aveva anche un ulteriore valore simbolico, la canzone parlava di me, ma si riferiva anche alle miriadi di persone coinvolte da quella guerra che non avevano avuto parola fino ad allora. Io mi proponevo di essere la loro voce, nel mio piccolo speravo di poter raggiungere e consolare tutti loro.
    E come fosse la prima volta
    la luce su di me arriva,
    e io so di esser fortunata,
    fortunata ad essere viva!

    La luce, quella luce che mi aveva accolta quando ero uscita dall'edificio che era stato il nostro campo di battaglia... la ricordavo ancora, mi aveva dato un senso di rinascita, mi aveva fatto sentire grata di essere sopravvissuta. Dopo gli orrori che avevo visto dentro quel laboratorio, dopo la paura, dopo la fatica, dopo le lacrime. Il testo era scritto nella mia testa già da quel giorno, anche se ci avevo messo mesi e mesi a scriverlo era già lì.
    La voce si era fatta più acuta, più emozionata, a sottolineare le parole del ritornello, cantate due volte di seguito. Anche il coro aveva aumentato la sua potenza, per poi ritornare al tono sospeso dell'inizio della canzone. Questa volta però si erano aggiunte delle percussioni, semplici e lente. Riflessive.
    La guerra, nella mia testa,
    nei miei occhi, non è mai finita.
    E per la millesima volta
    mi sento troppo stupida
    per esser assolta.

    Quegli incubi non erano casuali, non erano tracce di un passato qualsiasi, erano segno che non avevo ancora superato del tutto la cosa. Ero felice ora, con Draig, con la musica, con tutti gli aspetti della mia vita che mi rendevano appagata, ma restava quella macchia, che tornava sempre. Non l'unica, ma sicuramente una delle più persistenti. A ricordarmi della mia debolezza passata, di quanto fossi stata inadeguata e di quanto comunque fossi riuscita a fare. Dei miei meriti e di quanto fossero stati insufficienti. La mia rivoluzione era nata da quello, ma sarebbe bastata a trovare un futuro migliore? A proteggere il mondo e le persone come non ero stata in grado di fare in passato?
    Prima dell'ultima preghiera
    ricordo ogni faccia straniera.
    I segni lasciati sul mio corpo
    da ogni luogo che non scordo...
    che non scordo.

    L'intensità del contributo del coro aumentava, così come l'energia con cui erano cantate le mie parole. Il ponte accompagnò ad un'altra doppia esecuzione del ritornello, con le voci dei coristi che aderivano bene alla mia, accentuandola mentre stavano di sottofondo. Poi loro si chetarono, lasciando a me il grosso del lavoro per l'ultima strofa.
    Io... io non lo so cosa fare, cosa essere.
    Non so da dove dovrei cominciare,
    ma so che... che il passato mi guarda
    e che è ora che io finalmente riparta!

    Quelle ultime parole erano di liberazione e la musica cercava di esprimerlo in pieno. Ancora una volta ammettevo la mia debolezza, ma cercavo di farmi forza, un incoraggiamento rivolto a me ma anche a chiunque aveva sofferto e sbagliato. A chiunque fosse stato tolto qualcosa da quella maledetta guerra. Un nome su tutti mi era ritornato in mente quando avevo scritto quel pezzo, Tora, avrei tanto voluto che lei in qualche modo lo riuscisse a sentire, ma sapevo che sarebbe stato quasi impossibile.
    La fine della terza strofa coincideva con l'inizio del ritornello, ma a livello musicale rappresentava un cambio netto. L'intensità del coro e dell'organo ritornava alta, ma questa volta era accompagnata da nuovi strumenti. Tre violini e un violoncello davano un nuovo colore alla musica, più patetico, più forte.
    E come fosse la prima volta
    la luce su di me arriva,
    e io so di esser fortunata,
    fortunata ad essere viva!

    Quell'intenso ballo strumentale si fece guidare dalla mia voce in un giro di dolceamara liberazione ancora una volta, prima che tutto tornasse silente a parte il mio canto, in modo da ribadire ancora una volta il concetto e chiudere tutto il brano con esso.
    Sono fortunata ad essere viva.
    Sono fortunata ad essere viva...

    Ascoltando la fine mi scappò una lacrima di commozione, ma la accompagnai con un sorriso, che rivolsi ai due uomini nello stanzino con me. Juan Nappa rimandò con un ghigno soddisfatto, che se non fosse stato unito a parole chiare mi avrebbe potuto persino preoccupare.
    Confermo quello che avevo detto.
    Non aggiunse altro, probabilmente per non rovinare l'ascolto della traccia successiva, che stava per iniziare. Bastava così, però, entrambi avevamo capito. Si riferiva a quanto mi aveva detto quando gli avevo presentato il progetto di quella canzone per la prima volta. Non sarebbe stata lei il pezzo di punta, non inizialmente almeno. Sarebbe stato il secondo singolo e probabilmente avrebbe cercato il modo di unire ad esso un video da distribuire alle televisioni. Magari girato proprio nel Tè, proprio nei luoghi che raccontava. Ringraziai con un semplice cenno del capo, poi tornai concentrata sul pezzo che stava per iniziare.


    Edited by GIIJlio - 1/5/2019, 18:40
     
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    Dei semplici accordi di chitarra segnarono l'inizio di quello che probabilmente sarebbe diventato uno dei miei maggiori cavalli di battaglia, in futuro. Contavo molto su quella canzone, era stata composta con una cura incredibile e avevo cercato di renderla assolutamente personale, anche se mi sembrava la più adatta ad essere un successo. Juan aveva concordato con me e aveva deciso di puntare forte su di essa.
    Dopo una battuta soltanto di chitarra entravano in scena i violini e i violoncelli. Erano tanti, molti di più di quelli che di solito usavo nelle mie canzoni. Delle vere e proprie sezioni, tanto che avevo avuto bisogno di una mano per perfezionare l'orchestrazione del tutto, per quanto la musica fosse in tutto e per tutto solo mia. Il tono della melodia era greve, triste, lento, a descrivere bene il tema di cui avrei trattato.
    Cerchi riparo, fraterno conforto,
    tendi le braccia allo specchio.

    Se una parte consistente del disco era in qualche maniera dedicata a Tora e Corvo, questa canzone li vedeva protagonisti dell'ispirazione. Era dalla loro vicenda che era partita l'idea, mi ero immaginata la donna il giorno del funerale solenne di lui, dell'ultimo saluto ufficiale tra i due. L'avevo immaginata debole, fragile, lei che era stata così forte e affidabile, lei che probabilmente avrebbe dovuto esserlo ancora di più per la vita che portava in grembo.
    Ti muovi a stento e con sguardo severo,
    biascichi un malinconico Modugno.

    Il nome del cantante non era casuale, questa canzone era anche un omaggio a costui e in particolare ad un pezzo che aveva portato al successo, "Piove". Lo cantava spesso mio padre, era uno dei pochi ricordi nitidi che avevo di lui. In questo senso le due storie si sovrapponevano, quella dei due poveri ANBU amanti e quella dell'addio che non ero mai riuscita a dare ai miei genitori.
    Di quei violini suonati dal vento,
    l’ultimo bacio, mia dolce bambina.
    Brucia sul viso come gocce di limone
    l’eroico coraggio di un feroce addio.
    Ma sono lacrime...
    mentre piove, piove.
    Mentre piove, piove.
    Mentre piove.

    Il pathos si fece maggiore per quella sorta di ritornello, con un'intensità maggiore soprattutto degli archi, quasi un richiamo agli strumenti citati nel testo. A quel punto si chiariva che la voce narrante era quella dei due maschi, di Corvo come di mio padre. Di chi vedeva la persona amata soffrire nel dare quel "feroce addio". Il testo parlava di morte, parlava di quel tipo di separazione, ma ero stata attenta a fare in modo che non fosse l'unica interpretazione possibile. A volte gli amori finiscono anche in maniera meno tragica, ma il vuoto che lasciano dentro può essere non minore, il dolore può essere altrettanto forte. Volevo che chi si fosse trovato in quella situazione potesse riconoscersi nella mia canzone, per offrire anche solo un piccolo sollievo.
    La musica tornava allora alla melodia introduttiva e a quel passo lento e cadenzato. Avevo però cercato di dare un tocco più lieve alla voce, una sfumatura diversa al canto, per sottolineare un piccolo cambio tematico.
    Magica quiete, velata indulgenza,
    dopo l’ingrata tempesta.
    Riprendi fiato e con intenso trasporto,
    celebri un mite e insolito risveglio.

    La vita dopo l'addio, il ritorno ad una normalità che stona con quanto appena successo. La banalità della quotidianità, dopo la ferocia del lutto... non era semplice andare avanti, farlo per davvero. Chiunque abbia sofferto nella vita lo sa.
    Mille violini suonati dal vento,
    l’ultimo abbraccio, mia amata bambina.
    Nel tenue ricordo di una pioggia d’argento,
    il senso spietato di un non ritorno.

    I riferimenti alla canzone di Modugno erano più evidenti in questo passaggio, dai "mille violini" alla "pioggia d'argento", passando dal chiamare la protagonista "bambina". Lui era stato un interprete fondamentale della musica del Paese del Mare, ma era noto in tutto il mondo, non era un caso che un esule di Oto come mio padre conoscesse a memoria una sua canzone. Mi sembrava giusto fare un omaggio adeguato ad un mostro sacro della musica occidentale, anche perché ero riuscito a rielaborarlo in maniera molto personale.
    Di quei violini suonati dal vento,
    l’ultimo bacio, mia dolce bambina.
    Brucia sul viso come gocce di limone,
    l’eroico coraggio di un feroce addio.

    Con passo incalzante il ritornello riappariva, dopo la versione leggermente modificata di prima. Gli archi andavano al massimo, con ferocia poetica, mentre cercai di caricare di intensità emotiva il canto, tentando però di non esagerare con il patetismo. Era un equilibrio difficile, ma il prodotto finale mi soddisfaceva. E ad esso veniva dato un tocco finale con il frammento successivo, in cui usavo la registrazione per farmi il coro da sola. Avevo sempre voluto provare a farlo e finalmente ci ero riuscita, oltretutto in un momento in cui aumentava l'intensità del tutto in maniera ottima.
    Ma sono lacrime...
    mentre piove, piove...
    (sono lacrime)
    mentre piove, piove...
    (sono lacrime)
    mentre piove, piove...

    A quel punto voce e chitarra si chetavano, lasciando spazio ad un outro solo di archi. In quel senso il pezzo era anche un'ennesima dichiarazione d'amore per quegli strumenti, nonostante non li suonassi io avevo cercato di portare al massimo la loro espressività, per quanto ne fossi in grado. Avrei potuto giocarci tanto durante i live, fare diversi arrangiamenti.
    Speravo di averci visto lungo, che quel brano spingesse abbastanza il mio nome e il mio disco. Non che mi interessasse davvero la fama, anzi ne avevo un po' paura, però mi sarebbe piaciuto vedere i frutti dei miei sforzi. Poter raggiungere più persone con la mia musica mi avrebbe concesso maggiori possibilità, forse in quel modo avrei potuto fare quello che volevo davvero fare con la mia arte. Avevo fatto del mio meglio, speravo di non essermi sbagliata.
    Juan mi sorrise con quel suo ghigno malizioso, se fossimo stati in un cartone animato probabilmente avrebbe avuto il simbolo dei ryo al posto degli occhi, ma sapevo che quello non era il suo unico interesse. Sapevo di potermi fidare di lui e fui contenta quando commentò con una sola parola quello che aveva sentito.
    Brava.



    Ancora una volta scelsi di fare una transizione un po' ardita, cambiando tono in maniera piuttosto radicale. Il pezzo incominciò subito con un assolo di accordion, mi ero allenata molto su questo strumento per riuscire a comprendere come comporre al meglio la melodia principale. Aveva un andamento rapido e soprattutto mi dava l'idea di luce, di nuovo. Il grosso della parte strumentale era lasciata a questo strumento, con chitarra, contrabbasso e batteria a dare corpo e vitalità al tutto.
    Vorrei
    che sentiste bene tutti
    il senso di abbandono,
    vivendo l'attimo in cui muore il sole
    nel mio cuore.

    Con l'inizio del testo soltanto contrabbasso e batteria continuarono a suonare, a cui si unì la chitarra poco dopo, in un accompagnamento molto timido a confronto dell'exploit iniziale. Il testo era stato scritto a quattro mani insieme ad una persona molto importante per me, "Il Nemico", Kenji Netsushi. Lui aveva avuto un ruolo fondamentale nella mia crescita artistica e mi aveva aiutato in più di un momento, quella collaborazione era sia l'ultimo dei suoi tanti contributi che un sentito ringraziamento da parte mia.
    Se vuoi
    alza gli occhi e cercami su in alto,
    è già il momento in cui
    lascio al volo i miei pensieri
    e mi concedo al suolo.

    La protagonista e voce narrante del pezzo era una tuffatrice, come chiarito soprattutto dal titolo. Il brivido del salto e della caduta erano uno strumento che avevamo usato per introdurre il tema vero del pezzo, chiarito dal ritornello.
    Il tempo scorre come un torrente,
    riproducendo nient'altro che
    l'ombra di se stesso.

    Questa parte fu accompagnata dal ritorno della melodia principale e del suo protagonista assoluto, l'accordion. E al termine di questo breve passaggio la fisarmonica fu sostituita per poche battute da un violino, che la imitò esibendosi in una versione meno energica dello stesso tema centrale, in preparazione della seconda strofa.
    Potrei
    raccontarvi quanto era bella
    quella pioggia di schizzi d'anima,
    quando ho spezzato la mia immagine sorella
    nello specchio d'acqua.

    Il tempo come successione di momenti preziosi, emozionanti, proprio come il tuffo della protagonista. Istanti singoli, ma di incredibile delicatezza e importanza, il nostro intento era stato quello di esaltarli con il paragone con un gesto di per sé piuttosto normale, ma poeticizzato al massimo.
    Il tempo scorre come un torrente,
    riproducendo nient'altro che
    l'ombra di se stesso.
    Tuffatevi con me
    in questa nuova età!
    Il tempo è un caleidociclo
    senza intensità.

    Il nuovo ritornello aggiunse qualcosa in più, raggiunse quel culmine che volevo, che volevamo. L'invito a fiondarsi sul futuro tutti insieme, verso un avvenire più solare, di speranza. Il mio canto era pieno di gioia e ad esso poi si aggiunse quell'immagine bellissima che Kenji mi aveva proposto e che io adoravo. Prima di allora non conoscevo i caleidocicli, non ne avevo mai sentito parlare. Si trattava di costruzioni strane fatte con la carta piegata, che potevano essere in qualche maniera fatte "girare" all'infinito. E costruendo le sue facce con disegni particolari si potevano creare delle figure davvero magnifiche. Imparai anche a farli, tra le altre cose. L'idea di usare questo oggetto come metafora mi piaceva un sacco, anche se forse non in molti avrebbe compreso quel verso.
    Tuffatevi con me!
    Ancora una volta subentrò il violino per qualche battuta, prima dell'esplosione che portava alla fase conclusiva della canzone, in cui subentrò anche un coro, fatto da Kenji in persona.
    Il tempo scorre come un torrente,
    (tuffatevi con me)
    riproducendosi,
    (ahh, tuffatevi con me)
    rigenerandosi.

    Ne seguì un nuovo ritornello, sempre energico, al cui termine ci fu un breve assolo di chitarra particolarmente incalzante. La tensione risaliva e ci si preparava alla fine del pezzo, in cui la musica si spense pian piano dopo le ultime parole.
    Tuffatevi con me!
    Tuffatevi con me
    in questa nuova,
    questa nuova etàà...
    tuffatevi...
     
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    La fine del pezzo precedente non fu accompagnata nemmeno da un istante di silenzio, non ci fu soluzione di continuità tra le due canzoni. L'invito a tuffarsi fu seguito quasi immediatamente dal tuffo, metaforico, nella nuova età. Che per me poteva voler dire una cosa soltanto, visto il momento in cui il brano è stato composto e inciso. "Di madre in figlia" era il titolo e con esso già avevo detto molto, per chi mi conosceva.
    La musica partì abbastanza lenta ma ritmata, con un'introduzione in diverse battute con chitarra e batteria.
    Non fraintendermi
    io sarò sempre in fondo qui,
    mi troverai
    in ogni momento.

    Il riferimento al nascituro era chiaro ed evidente, ma nel dedicare questa canzone a questi chiaramente mi rifeci agli esempi di genitorialità che avevo. Scrivere questa canzone fu un tuffo nel passato, all'infanzia spensierata con i miei, all'amore che aveva mostrato mia sorella nei confronti delle sue creature, al rapporto tra sua figlia e i suoi genitori adottivi, gli Onizuka. Ripensai a loro, a quello che erano stati e a come potevo trarre insegnamenti importanti per il futuro. E quindi mi rivolgevo subito al sangue del mio sangue, come se potesse già ascoltarmi, come se ci fosse già e fosse già adulto. Chissà, forse un giorno avrebbe ascoltato quella canzone e avrebbe capito.
    Per difenderti,
    anche sapendo che
    imparerai,
    comincerai
    molto, molto prima del tempo.

    Ancora tornava forse il tema comune a tutto il disco, il tempo. L'amore che avrei dato e il ruolo che avrei ricoperto, prima o poi sarebbe tutto invecchiato, ma speravo che lasciasse il segno nella vita di chi sarebbe venuto dopo di me. Un pensiero dolce e spaventoso allo stesso tempo. Ne avevamo parlato molto con Draig, negli ultimi mesi, quel testo prendeva parecchio dai nostri discorsi e dalle nostre paure.
    E mi stupirai,
    ogni piccolo passo,
    ogni dubbio che avrai.
    Mi ferirai,
    mi cambierai,
    senza renderti conto.

    Mi sentivo pronta, per quanto chiunque potesse essere pronto ad un cambio così radicale. L'idea di una vita nelle mie mani, di qualcosa che dipendesse solo da me, da noi, mi spaventava terribilmente. Sarei stata inadeguata, lo sapevo, ma sapevo di avere al mio fianco una donna splendida che mi avrebbe aiutata a essere quella che dovevo essere. Sapevo che avrei imparato mano a mano, che sarei dovuta resistere a fallimenti ed errori, ma ero convinta di potercela fare.
    E qualche volta mi mentirai,
    ma sarò sempre accanto,
    dovunque sarai.
    E non saprai,
    non capirai,
    che vivo per questo,
    per questo soltanto.

    Il rapporto tra genitori e figli non è mai semplice, ma è una delle cose più vere che esistono al mondo. Ne ero sempre stata convinta e tutti gli esempi che avevo avuto modo di osservare me ne davano riprova. Anche il passato lontano era sempre al mio fianco, anche quando sembrava così distante da non sentirlo più. I miei erano sempre accanto a me e speravo di riuscire ad essere lo stesso per il mio bambino. Perché non si smette mai di essere figli. Mai.
    Sarai di più
    di me, di noi,
    sei tu, non io,
    quella che sta crescendo.

    Il ritornello fu ripetuto due volte, con ritmo calmo e quasi frammentato, ma con un piccolo crescendo finale. Il canto era quanto più dolce possibile, quasi a rendere il tutto come una ninna nanna. Chissà, magari l'avrei usata così, di tanto in tanto. Adoravo quel passaggio, forse la canzone di per sé non era perfetta, ma era viscerale e amorevole. Significava molto per me, anche alcune parole di cui forse altri non avrebbero potuto cogliere il valore. Accettare di non stare più crescendo voleva dire sapere di essere arrivati al punto di non poter più solo prendere, ma di dover dare indietro al mondo. Dare tutta me stessa, perché per qualcuno io sarei stata tutto il mondo. Io e Draig saremmo state l'intero universo per nostro figlio, così come i nostri genitori avevano fatto con noi. E così come prima di loro avevano fatto tutti, sin dall'alba dei tempi. Ero spaventata, terribilmente spaventata, ma volevo farlo, con tutta me stessa.
    Non offenderti,
    se dovrò sgridarti un po’,
    se sbaglierò
    e sbaglierò parecchio.

    Dopo un breve assolo di chitarra che fece da traghettatore tornò la melodia principale, con la seconda strofa. E con essa fecero brevemente comparsa quelle mie paure che costellavano l'attesa, ma cercai di non dar troppo peso ad esse nel testo. Volevo che predominasse l'ottimismo, perché avevo investito tanto, tutto, in questo progetto familiare e volevo fare della canzone un inno al futuro.
    Non nasconderti,
    quando tu dovrai dire di no;
    imparerai,
    comincerai,
    molto, molto prima del tempo.
    E poi, e poi, e poi...
    e poi t’innamorerai.
    E non dire che è presto,
    perché non lo sai.
    E vedrai,
    sbaglierai e poi
    sbaglierai parecchio,
    ma in un caso o nell’altro...

    Quel passaggio fu un grande parallelismo tra la mia vita e quella che immaginavo per lui/lei. Non a caso ripresi anche il verso sullo sbagliare, cambiandone soggetto, proprio per ripercorrere quei percorsi, che per forza di cose sarebbero stati in qualche modo simili. Avrei cercato di trasmettere i miei punti di forza, avrei cercato di celare le mie tante debolezze, ma sapevo per certo che errori e sofferenza non sarebbero stati evitabili. Mi avrebbe fatto male guardarli, ma avrei dovuto fare in modo di dare gli strumenti necessari a superarli, perché quello è il modo migliore di vivere la vita. Imparare dagli errori, comprendere e superare le difficoltà, raggiungere i propri obiettivi. Non sapevo chi sarebbe stato/a, ma sapevo che avrebbe avuto tutto il mio amore. E avevo anche un'altra speranza forte, quella che espressi nel ritornello.
    Sarai di più
    di me, di noi;
    sei tu, non io,
    quello che sta crescendo.

    Quelle frasi furono ripetute tante volte, sempre più dolcemente e sempre più piano. L'arrangiamento, prima quasi minimale, prese il sopravvento, avvolgendo sempre di più il canto, fino a sommergerlo del tutto. Nuovi strumenti entrarono solo per quel finale, da un flauto a una coppia di violoncelli. Una danza leggera ed elegante, a completare quella canzone appassionatamente dolce. L'avevo fatta sentire a Draig prima che a chiunque altro e lei aveva pianto di commozione, fatto piuttosto raro. Avevamo pianto insieme, felici. Quel pezzo era la giusta conclusione di quel disco in cui avevo messo tutta me stessa, in cui avevo parlato di passato e in cui avevo fatto il miglior augurio per il futuro.
    Chiusi gli occhi, anche a risentirlo quella volta il pezzo mi fece venire i lucciconi. Rimasi per qualche secondo così anche quando arrivò il silenzio, poi sentii una pacca sulla mia spalla e riaprii gli occhi. Era stato Juan, con una faccia seria e soddisfatta. Uscì dallo stanzino subito dopo, seguito dal direttore artistico che mi lanciò un semplice sorriso di approvazione. Io mi asciugai un attimo quei principi di lacrime con la mia innata, poi andai con loro. Ci ritrovammo nell'ufficio del presidente Nappa, dove lui tirò fuori da un cassetto un grande foglio, porgendomelo.
    Oggi è arrivata anche la copertina. Mi sembra come la volevamo, no?
    La fissai con attenzione per qualche istante, emozionata, poi annuii soltanto. Era venuto un fotografo piuttosto famoso e avevamo fatto diverse prove costumi e scelto con cura abiti, trucco, luce e anche font delle scritte. Ogni singolo aspetto era stato considerato e vagliato al meglio delle possibilità. Quasi non sembravo io, in quella foto, tanto che quando l'aveva vista, in seguito, Draig mi aveva chiesto scherzosamente di presentarle quella "sventola". Effettivamente tutta quella meticolosità aveva accentuato al massimo la mia figura e adoravo il risultato finale. Appena possibile mi sarei fatta fare un vestito su misura che assomigliasse il più possibile a quello della copertina.
    Ci abbiamo messo parecchio, ma sono molto soddisfatto del risultato. Tutto è come lo volevi tu e sinceramente credo che funzioni a dovere. Vedremo la reazione del pubblico, ma possiamo essere certi di aver dato del nostro meglio e questo non è sempre scontato. Fisserò il lancio ufficiale il prima possibile. Preparati, sarà un periodo intenso! Il lavoro non è ancora finito, però adesso è il momento di festeggiare.
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    Ricompensina bonus: complice anche il buon nome ottenuto grazie ad iniziative passate, il disco ottiene ottime vendite in tutta l'area meridionale del continente (The, Mare, Collo, Onde e coste di altri Paesi che si affacciano sul Golfo dei Semi). Secondo gli ultimi sondaggi, oltretutto, "Marrakesh" diventa la top hit dell'estate, la canzone più ascoltata in tutto il Paese del Mare!
     
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