Aiko Unchained | Livello D

Partecipanti: Aiko Netsushi | Qm: Utino

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    Un po' da qui e un po' da là

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    Josuhu Aburahamu. Conosci il suo nome. Il suo volto. Il suo indirizzo. Tutto quello che ti resta è dimostrargli ancora una volta quello di cui sei capace.

    Buon divertimento!
     
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    Demone incendiario

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    Dopo il ritorno alla normalità fu difficile rimettere in moto la mia vita. La ricostruzione del Tempio di Baelor occupava gran parte delle mie riserve di tempo ed energie, gli allenamenti tutto ciò che restava. Ci misi parecchio tempo a riuscire a farlo, a scrivere davvero a Josuhu Aburahamu. Lui mi aveva notato a quella competizione canora e mi aveva lasciato il suo biglietto da visita, sembrava una persona impegnata e importante. Gli avevo scritto in maniera rapida e abbozzata il motivo del mio ritardo e gli avevo chiesto un appuntamento. Aveva accettato, anche se non mi aveva risposto direttamente lui ma una segretaria. Mi sarei dovuta far trovare cinque giorni dopo nella sede principale della casa discografica, un palazzo abbastanza grande in un villaggio nel sud del Paese della Neve. Arrivai a questo incontro molto carica, grazie agli incoraggiamenti di Draig e dei miei confratelli, ma la realtà si dimostrò abbastanza diversa dalle mie attese. Innanzitutto il luogo era molto più professionale e inquadrato di quanto mi sarei aspettata, pensavo che un ambiente artistico fosse più libero e sgangherato, invece quello sembrava in tutto e per tutto un normale ufficio. Anche l’incontro con Josuhu fu diverso dalle previsioni. Lui mi chiese subito se avessi intenzione di pubblicare un disco e, se sì, quale motivo avessi per farlo. Gli raccontai di come fossero ormai molti anni che vagavo come artista di strada e gli dissi che mi avrebbe fatto immenso piacere riuscire a raggiungere sempre più pubblico con la mia umile arte.
    Ok, mi piace la tua tenacia. E come repertorio? Come sei messa?
    Gli spiegai quali erano gli strumenti che ero in grado di suonare, quali più e quali meno. Poi gli elencai le canzoni che conoscevo, per lo più cover con qualche brano originale mio.
    Mmm... cover no, siamo una casa seria noi. Dobbiamo portare qualcosa di fresco, di nuovo. La roba che avevo sentito nell’Artiglio... quella aveva stile da vendere. L’arrangiamento era un po’ abbozzato, forse non l’avevi ancora pronto al cento per cento, ma si vedeva che era una cosa a cui tenevi un botto. Ecco, se mi riesci a tirare fuori qualcosa del genere siamo a posto. Non ci serve molto, da sette a dieci tracce va benissimo, purché siano solide tutte. Se ti serve abbiamo buoni arrangiatori tra i nostri collaboratori e anche dei parolieri se ne hai bisogno. Se ho capito bene sei più una musicista che una scrittrice, giusto? Se serve una mano non farti problemi a chiedere. Ah, vanno anche bene pezzi solo strumentali, se rientrano nel tono che vuoi dare al tutto, tieni conto anche di quello. E non farti limitare dalle tue personali abilità di suonatrice, abbiamo strumentisti di primo piano sotto contratto e abbiamo contatti con professionisti con i controfiocchi. Noi siamo un’azienda vera e propria, un’azienda che produce arte. Ti senti pronta per una sfida del genere? Mi sembri un po’ preoccupata, ma vedo che sei anche determinata, no? Torna qui tra sette giorni e fammi vedere un progetto, un grande progetto. Non serve che sia tutto pronto per forza, mi basta che ci sia il potenziale su cui lavorare. Stupiscimi e ti firmo un contratto in un battibaleno. Io credo in te, Aiko, ho occhio per questo tipo di cose.
    Determinata come non mai accettai la proposta e ritornai a casa con mille idee per la mente. Ne parlai con Draig, con Bajirio e con tutte le persone che mi capitarono a tiro. Cercai di prendere tutti le influenze positive che mi fu possibile acquisire e alla fine riuscii a completare una bozza abbastanza definitiva. Ottenni il permesso del Capo Sacerdote, che mi concesse un altro periodo di pausa dagli studi, purché continuassi le letture, le meditazioni e soprattutto mi comportassi sempre in maniera consistente con il mio ruolo di novizia. La mia ragazza decise di accompagnarmi all’incontro, anche se non poté partecipare direttamente mi faceva sentire più forte sapere di averla con me. La bozza piacque a Josuhu, che mi porse subito un contratto che aveva già preparato. In esso veniva previsto un periodo preciso di registrazione, due settimane, e un compenso preciso. Avevo intenzione di devolvere gran parte di questi soldi alla ricostruzione del tempio di Baelor, ma a questo avrei pensato più avanti.
    Mi venne fatto conoscere anche conoscere un altro uomo, Rei, che sarebbe stato il mio direttore artistico per tutta la durata dell’incisione. Questi lesse velocemente il mio progetto e lo fissò con aria seria.
    Firma il contratto, ragazza, poi tra dieci minuti vieni di là con me che ne parliamo nel dettaglio.
    Dopo aver detto ciò l’uomo si defilò nella stanza vicina, lasciandomi abbastanza confusa. Per fortuna intervenne Josuhu a chiarirmi. Rei faceva sempre così quando iniziava a occuparsi di un progetto che gli interessava molto e in cui vedeva margini di miglioramento, era un bene che si fosse dimostrato così motivato, disse.
    Ah, a proposito. Prima mentre leggevo ho visto che non hai messo un titolo definitivo. Ne ho pensato uno io, vediamo se ti piace. “Musica senza catene”. Ci sta bene con quello che vuoi fare e con la tua storia, no?
    Stavo firmando quando sentii quella proposta. Portai lo sguardo verso di lui e sgranai gli occhi. Era un titolo davvero bellissimo, racchiudeva proprio quello che volevo comunicare con il mio disco.
    La ringrazio di cuore. Farò di tutto per essere all’altezza delle sue aspettative.


    Edited by GIIJlio - 1/5/2018, 22:55
     
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    Quando tu eri qui...
    La voce partì, nel silenzio della sala di registrazione. Il mio primo disco non poteva iniziare che da qui, dalla canzone di Ayako. Era ormai uno dei miei cavalli di battaglia, ma quando l’avevo proposto il direttore artistico della casa discografica aveva storto il naso. Una cover come prima traccia di un disco di esordio pareva una scelta controproducente, come un’ammissione di non aver niente di nuovo da dire. Quando gli spiegai quanto significasse per me quella canzone, della storia che aveva dietro, iniziò a capire, ma mi disse che era comunque una scelta pericolosa. Lo convinsi definitivamente quando gli feci sentire la mia versione. Era innovativa, mi confermò, quella canzone era stata scritta un quarto di secolo prima ed era stata rifatta in innumerevoli versioni, ma quella era comunque in qualche modo nuova. Io apprezzai molto il complimento e seguii le sue indicazioni per migliorare il pezzo, piccoli aggiustamenti che rendevano il pezzo più fedele all’originale ma anche più mio. Quell’uomo era molto competente e sensibile, parlare con lui era un arricchimento continuo.
    Fluttuavi come una piuma
    in un mondo fantastico...

    La voce aveva la parte più importante nell’imporre il tono giusto della canzone. Evocativa nella prima parte, poi più energica e aggressiva man mano che il protagonista del testo si distruggeva da solo. Rei insistette molto, dunque, sulla qualità del cantato, facendomi registrare mille e mille volte, finché non raggiunsi il risultato desiderato. Era maniacale al punto giusto e mi feci guidare dal suo orecchio. L’arrangiamento che avevo proposto prevedeva una parte importante per pianoforte. Del resto mi ero ispirata molto alla versione di Ayako, che era solo per questo strumento, anche se avevo cambiato molto a partire da questa. Avevo sottratto molto alla parte di piano, in modo che anche una principiante come me potesse suonarla correttamente. Non ero ancora diventata brava nelle parti difficili, ma avevo la giusta espressività a detta di Rei, che quindi mi lasciò suonare anche quello strumento, nonostante all’inizio fosse contrario.
    Sono un vermeee
    Una delle parti più importanti era quella degli ottoni, lasciati a sassofono e trombone. Avevo lavorato duro negli ultimi mesi per imparare a suonare quegli strumenti e grazie all’aiuto di maestri improvvisati avevo raggiunto un discreto livello. Abbastanza da conoscere le potenzialità e l’espressività che potevo richiedere a loro, ma non abbastanza da suonarli in un disco da professionista. Per questo mi affidai alla produzione, che fece arrivare un paio di strumentisti che avrebbero suonato per me. Fu strano dare direttive, essere il punto di riferimento del gruppo, ma in qualche modo riuscii a trovare il coraggio e farmi valere. Il fatto che i due ragazzi fossero gentili e disponibili aiutò non poco, così come il fatto che tenessi in maniera estrema a quel pezzo. Riuscii a far loro capire come dovevano suonare e in effetti la loro parte fu una delle prime cose ad essere completata, erano dei professionisti esemplari. Un’altra collaborazione importante fu quella di Yusuke, il batterista che da lì in poi avrebbe seguito quasi tutta la produzione del disco. Un ragazzo silenzioso ma molto carismatico. In questo pezzo il suo ruolo era abbastanza di sfondo, come del resto quello del contrabbasso, che suonai di persona. Questi strumenti dovevano dare corpo e ritmo alla musica, mentre gli ottoni dettavano il tono che man mano prendeva il pezzo, supportando organicamente la voce in un tutt’uno espressivo dalla potenza notevole, a mio avviso.
    Cosa diavolo ci faccio qui?!
    Oh, no! Oh, no!
    Il mio posto non è qui...

    Quel verso finale, già ripetuto un paio di volte durante il resto della canzone, riassumeva al meglio lo spirito del pezzo e il motivo per cui lo avevo scelto come primo. Ero puro senso di inadeguatezza, disprezzo di sé. Ma dirlo all’inizio, urlarlo anzi, mi permetteva di andare oltre, di ripetermi una volta di più che io invece meritavo di essere lì. Meritavo di essere al fianco di Draig, meritavo di incidere un disco. Me lo ero guadagnato con fatica e sacrifici, non potevo più buttarmi giù, c’era troppa gente che credeva in me. Dovevo farmi forza e andare avanti e farlo letteralmente, passando ad un brano successivo mi pareva un ottimo modo di procedere. Il pubblico non avrebbe colto, ma non era importante, era un messaggio rivolto a me stessa e in qualche maniera funzionò per davvero.

    Video

    Dopo il breve silenzio sarebbe stata una chitarra solitaria a irrompere nelle case dei miei ascoltatori, gentile ma energica. Quegli accordi erano ormai un punto fermo per me, semplici ma facilmente riconoscibili, davano il via ad una canzone tra le mie preferite. Il testo era quello in cui avevo infuso in maniera più chiara e sentita il mio amore per Draig e per questo ci ero particolarmente legata. Le parole erano venute da sole, naturali, mentre la musica aveva avuto un parto più complicato. Gli accordi principali erano di chitarra ed erano ottimi, ma avevo avuto non poche difficoltà a intuire come integrarli in un arrangiamento complessivo che mi soddisfacesse appieno. Forse era proprio l’alto legame che avevo con questo pezzo che mi rendeva ancora più perfezionista e insoddisfatta del solito. Non lasciai a lungo da sola la chitarra, prima la batteria di Yusuke e poi il contrabbasso entrarono a dar corpo al tutto. Da quando avevo scoperto le potenzialità di questa combinazione non ci rinunciavo quasi mai e anche all’interno di questo pezzo essi costituivano una sorta di colonna vertebrale musicale.
    Occhi da orientale,
    che raccontano emozioni...

    Una seconda chitarra interveniva di tanto in tanto a duettare con l’altra, prima ancora che iniziasse la parte vocale, che arrivò effettivamente poco dopo. La dichiarazione d’amore era chiara, esplicita, quel testo parlava di Draig e non poteva parlare di nessun altro al mondo, non direttamente almeno. Il tono del canto era dolce, non feci alcuna fatica a trovare la corretta impostazione della voce. Alla fine di ogni verso veniva lasciato un piccolo spazio al violino, con il quale eseguivo una piccola frase musicale che aveva il compito principale di fare da legante tra le varie parti della canzone. L’unità del pezzo era fondamentale per l’equilibrio e la godibilità della musica.
    Sono occhi di ambra lucida
    in mezzo a palpebre di viole...

    Prima di pubblicarla avevo preso coraggio e avevo fatto sentire la canzone a Draig, per chiederle il permesso di usare un qualcosa che parlava in maniera così inequivocabile di lei. Furono queste le parole che la commossero di più, non capii proprio perché quelle ma fui contenta che avessero colpito nel segno. Appena avevo finito la mia piccola esibizione mi aveva abbracciato, mi aveva stretto a sé e non mi aveva lasciato andare per un bel po’. Lei non era facile alle lacrime come ero io, ma quella volta non si trattenne neanche minimamente. Ovviamente non lo feci neanch’io, non ero in grado di resistere a situazione del genere. E in mezzo a quel gioioso pianto collettivo lei mi ringraziò mille volte, chiedendo cosa potesse fare per ricambiare. Io le dissi che lei era diventata la mia musa e che in quanto tale ero io a doverla ringraziare per il modo in cui illuminava la mia arte. Averla incontrata era una benedizione per cui sarei stata eternamente grata ai Sette e non era un caso se era stato quel pezzo a aprirmi le porte dell'occasione più importante della mia vita.
    Tienli chiusi
    ancora pochi istanti...

     
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    La tuba partiva all’improvviso, ripetendo ritmata un accordo molto semplice. All’inizio quel frammento era stato pensato per contrabbasso, però poi avevo cambiato idea. Il suono possente, quasi goffo, di quell’ottone era più che perfetto per il tono allegro e scanzonato dell’intero pezzo. Dopo pochi secondi intervenivano gli altri strumenti, un’orchestrina abbastanza strampalata ma alquanto funzionale. Prima una chitarra, di puro accompagnamento, poi le percussioni, che per la gran parte del brano erano rappresentate soltanto da quello shaker di origine del Paese del Mare. L’ultimo a intervenire era un altro strumento di eguale origine, l’accordion. Aveva una parte minore nel pezzo, ma non per questo meno importante, doveva fare da legante tra i vari suoni, aiutare a renderli un tutt’uno. Una volta creato il tappeto musicale la voce poteva fare l’ingresso sulla scena, all’inizio quasi in punta di piedi.
    Mi piace scavare buche
    e metterci cose dentro;
    quando sarà vecchia
    le prenderò indietro?
    Perché son bei ricordi
    e io non riesco a stare ferma mai!

    Il testo era una grande metafora della mia intera vita e del modo in cui avevo scelto di impostarla, un piccolo gioco quasi più derisorio che autocelebrativo. Era divertente prendermi un po’ in giro, ridere delle mie strane manie. L’ultima frase, ripetuta più volte all’interno del testo, era appunto quello, un puntare il dito contro me stessa con tono sia severo che tenero. Nonostante tutti i problemi e le difficoltà a me piaceva la mia vita da nomade, non potevo negarlo.
    E mille volte ho passato queste strade,
    miiille volte...

    Piccolo ponte, con tanto di acuto importante. Il percussionista iniziò ad accompagnare lo shaker con dei semplici colpi di batteria, per guidare al meglio il passaggio verso il ritornello, ancora più del solito centro focale del pezzo.
    Non ho radici
    e la mia casa
    non è mai stata a terra.
    Non ho radici
    e la mia casa
    non è mai stata a terra.
    Non ho radi-ihihihi-ci
    Non ho radi-ihihihi-ci

    Il testo non era una dichiarazione realistica, io le mie radici ce le avevo in realtà, anzi ne avevo molte. La mia famiglia, nel Paese degli Orsi, il mio clan che aveva combattuto per così tante generazioni per Oto, le origini lontane del Credo Militante nell’Artiglio. Ma nonostante l’importanza del passato per la mia vita questo comunque non riusciva a fermare i miei viaggi, non riusciva a bloccare il mio inappagabile desiderio di muovermi, di lasciare tutto e partire. Portandomi dietro pezzi, certo, ogni singola tappa mi aveva arricchito.
    Io ci starei anche ferma,
    ma è più forte di me.
    Chiedimi da dove vengo,
    risposte ne ho infinite.
    Perché son bei ricordi
    e io non riesco a stare ferma mai!

    Il passo rapido e ritmato della musica si accompagnava bene al testo, altrettanto movimentato. Non c’era spazio per tristezza o cupezza, era tutto giocoso e ribelle a suo modo. Dopo l’ennesimo ritornello la musica diventò più quieta, per creare una sensazione di sospensione, proprio mentre veniva ripetuto il primo verso, privando dell’intonazione interrogativa della seconda domanda. Veniva ripetuto due volte e la seconda aveva una particolarità, visto che la voce sembrava scemare, quasi fosse una conclusione inaspettatamente riflessiva.
    quando sarà vecchia
    le prenderò indietro.
    Non ho-

    Mezzo secondo di silenzio, poi avrei fatto iniziare un ritornello, ma l’avrei interrotto subito, per dare spazio ad un brevissimo assolo di tuba. Il ragazzo che la suonava era molto bravo, fu semplice affidarmi a lui. Poche battute, poi riprendemmo quella tiritera orecchiabile e coinvolgente. O almeno speravo lo fosse per gli altri almeno quanto lo era per me, perché trovavo davvero potente il pezzo. Ancora un paio di ripetizioni, poi alla fine la musica si concluse di colpo, segnando la fine della canzone. Un pezzo del genere non poteva certo avere una chiusura tranquilla o normale, mi ero detta quando l’avevo composto.

    Video

    Dopo qualche secondo di silenzio gli ascoltatori avrebbero assistito ad un cambio di tono piuttosto radicale. Alla scanzonata irrequietezza del pezzo appena concluso sarebbe subentrata tutta un’altra atmosfera, più sognante, onirica quasi. Avevo cercato di essere evocativa al massimo, tenevo particolarmente a quel brano, che sarebbe partito subito con degli accordi rapidi e dall’aria quasi frivola del mio violoncello. Adoravo quello strumento, ne avevo comprato uno quasi subito dopo essere sbarcata nel Paese dell’Artiglio. Era così simile al violino, per certi aspetti, ma aveva un’espressività tutta diversa ed altrettanto splendida. Avevo imparato presto a suonarlo bene ed ero diventata davvero brava. Non quanto con il mio strumento principale, ma poco ci mancava. Per questo, quando avevo progettato quella canzone, mi ero accorta subito di quanto funzionasse meglio con il violoncello rispetto che con il suo cugino più piccolo. Dava un’impronta più bassa, meno trillante, alla melodia principale. E soprattutto permetteva a questa di amalgamarsi al meglio con i due accompagnamenti che avevo progettato, anch’essi fatti con violoncelli. Un trio suonato da me e me soltanto, perché così ero sicura di trovare il giusto equilibrio tra le parti, un privilegio che nessun musicista aveva avuto modo di provare prima di me, visto che a quanto ne sapevo ero l’unica ad usare i cloni in quel modo.
    Dopo un po’ di battute di assolo interveniva il secondo violoncello, che con note più ampie e tenute avvolgeva la melodia principale, le dava terreno solido su cui poggiarsi e continuare il suo volteggiare grazioso. Assieme a questo nuovo membro faceva il suo ingresso anche il pianoforte, il cui ruolo era davvero minimale ma importante. Poche note, ma piazzate in modo da supportare il tutto in maniera fondamentale. Poi arrivava il terzo violoncello, che si univa al secondo in maniera non sincronica ma quasi parallela, a formare un intreccio in grado di dare sempre più solidità al pezzo. Piccoli ma profondi colpi di batteria segnavano il passo tra una battuta e l’altra, a dare profondità al tutto. Poi un crescendo di intensità, sempre maggiore, sempre più acuto e rapido, finché non interveniva in pieno la batteria. Una piccola esplosione di percussioni, che aiutò a rendere quel passaggio più energico e diretto.
    La canzone era tutto un grande sogno ad occhi aperti, l’avevo composta a partire da quello. Il discorso sulla maternità che aveva tirato fuori Draig all’improvviso non mi aveva lasciato per niente indifferente, la mia mente ci tornava spesso e quello era il risultato più evidente. Il numero di archi che componevano l’orchestra non era un caso. La melodia principale rappresentava il nostro ipotetico bambino, libero di svolazzare, di esplorare, di vivere allegramente e senza pensieri. Me lo immaginavo proprio così, libero come non mai. E noi, io e Draig, a danzargli intorno, a prenderci cura di lui, insieme e singolarmente, a turno e come coppia. I due violoncelli di accompagnamento quello facevano, avvolgevano l’altro, sia aiutavano a vicenda, si sostituivano e si sovrapponevano di volta in volta, con una naturalezza di cui mi ero sorpresa anch’io quando l’avevo composta. Era uscito tutto di getto e adoravo come non mai il risultato, motivo per cui ero molto tesa a riguardo.
    Ad un certo punto la musica si faceva più calma, malinconica. Il primo violoncello si sarebbe messo a fare lo stesso tipo di frase musicale dei due suoi compagni, un passaggio che rappresentava la crescita, il diventare improvvisamente adulti. Sarebbe stato un momento stranissimo, non riuscivo neanche a immaginarmelo di preciso. Come avremmo reagito vedendo il nostro bambino diventare sempre più grande fino ad essere come noi? Saremmo state felici di lui? Domande complicate e senza possibilità di risposta, interrotte da una nota acuta. Il buonumore sarebbe tornato subito nel pezzo, insieme alla melodia principale. La musica avrebbe ripetuto la danza di inizio brano, con i medesimi ingressi scaglionati, con il medesimo tappeto di pianoforte e con la medesima esplosione di batteria nel punto clou. Ma questa volta il climax di dinamismo sarebbe stato ancora più accentuato, al punto da lasciare che si inserissero delle note sporche, fortissime, a simboleggiare la potenza del legame tra due madri e il loro figlio. Anche il passaggio seguente ad una atmosfera più meditativa fu più sfumato e le frasi musicali di quel momento furono più energiche. I tre violoncelli dialogarono con intensità, a simboleggiare il momento fondamentale nella vita di ogni genitore, quello in cui l’uccellino lascia il nido. Una madre vive per quel momento, lotta perché il figlio sia pronto, ma un po’ ne muore dentro. Pur non avendo mai vissuto quel momento sapevo che era così. Ma quel punto in cui cercavo di mostrare la somma di gioia e amarezza che si prova in momenti di genere durò pochi istanti. Poi pochi, brevi tintinnii di batteria introducevano la parte finale, il ritorno al sogno. O meglio, ai ricordi, in questo caso. Le due madri rivivevano le memorie del passato, il bambino correva e giocava di nuovo su un prato per loro, nel loro cuore. Nella mia mente era l’immagine perfetta su cui chiudere e su di essa mi basai per scrivere la conclusione, lenta e placida.
    Non avevo raccontato a Draig di tutto ciò, non le avevo spiegato di come avessi scritto una canzone ispirandomi ad un nostro possibile figlio futuro. Però, quando la ascoltò e le dissi il nome del pezzo, “Stella”, lei sembrò un po’ commuoversi, come se in parte avesse capito. Del resto quello era il nomignolo con cui si rivolgeva a tutti i bambini che incontrava, non poteva essere un caso, dovrà aver pensato. Chissà, forse un giorno avrei avuto il coraggio di dirle tutto, così come forse un giorno avrei saputo cosa risponderle. Intanto sublimare in musica il mio dilemma, le mie speranze e le mie preoccupazioni era il modo migliore di affrontarle. “Io cos’altro posso fare? Io posso scrivere canzoni”, l'avevo composto io quel verso ed era vero più che mai. Finché un giorno magari tutto sarebbe stato chiaro, finché un giorno magari avremmo ricevuto la benedizione di un figlio. Chissà...
     
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    L'altalena emozionale riprese subito dopo la sua corsa, tornando all'allegria scanzonata di prima. Un'altra canzone ispirata a Draig, un'altra canzone dedicata ai viaggi, un altro testo in cui cercavo di mettere tutta me stessa. La parte musicale iniziava sin da subito al massimo, tutti gli strumenti partivano insieme. Protagonista assoluto era il violino, con una melodia agile e sbarazzina, quella canzone era forse quella in cui maggiormente avevo lasciato spazio alle mie doti con quello strumento su cui era nata e cresciuta la mia arte. Ruolo di supporto principale era affidato al pianoforte, che saltellava allegramente in modo da accompagnare il resto della musica. Come sempre contrabbasso e batteria davano spessore complessivo in maniera semplice ed efficace, ormai era raro per me fare a meno di questi strumenti.
    Siamo a miglia da chiunque
    tutto sembra impossibile,
    ma finché tu sei qui con me
    non c'è altro posto dove vorrei essere.

    Il violino lasciava spazio alla voce, perché non si pestassero i piedi a vicenda. Le parole procedevano rapide, una dietro l'altra, con allegria e energia. Era l'inno ad un amore danzante, in continuo movimento, forse il più grande sogno in cui potessi mai sperare. Draig aveva promesso di rimanere sempre al mio fianco, ma ce l'avrebbe fatta anche quando la mia irrequietezza si sarebbe fatta di nuovo viva prepotentemente? Ero una donna difficile e lo sapevo, per quanto amassi quella ragazza più di me stessa non sapevo quanto sarei stata in grado di sopprimere la mia vera natura di girovaga. Avremmo avuto difficoltà a trovare il giusto equilibrio tra noi, ne ero sicura, ma speravo con tutto il mio cuore che ce l'avremmo fatta, prima o poi. Quella canzone rappresentava proprio quella speranza, il sogno di un futuro migliore per entrambe.
    Ti aspetterei per sempre
    io sarò regina tu il mio re
    finché io sarò con te
    il mio cuore potrà battere.

    Il testo descriveva dunque il viaggio, eterno e sempre diverso, di questi due amanti evidentemente ispirati a me e a Draig. Dopo ponte e ritornello il violino interveniva per un breve ma significativo assolo. Lieve, quasi frivolo, poi tornava la voce per un altro verso. Il viaggio era una missione intrapresa alla ricerca della pace interiore, ma non poteva essere svolta separatamente, come se gli amanti fossero due parti di un singolo intero, interdipendenti tra di loro e dunque inseparabili. Eravamo già così, noi? Lo saremmo mai diventate?
    Se mi dai una chance
    la coglierooò
    è un colpo alla cieca,
    ma ce la farooò
    dammi tutto il tuo cuore,
    non crollerooò
    quando son con te non c’è altro posto dove vorrei essere.

    A questo punto il violino avrebbe avuto un sussulto, aumentando la potenza della sua espressività. Poche note ma ben piazzate, di una potenza superiore alla norma. Erano il preludio a qualcosa di importante, un assolo lungo e rutilante. La ripetizione rapida, dinamica, quasi circolare, indicava il movimento continuo del viaggio dei protagonisti. Sempre più lontano, sempre più determinati, sempre insieme. La forza quasi seria dell’assolo sfumava in un ultimo svolazzo leggero, preludio all’ennesimo ritornello e che aiutava a ritrovare il tono principale del brano. Infatti dopo la breve incursione della voce tornava il violino per un attimo, ancora più lieve di prima e poi entrambe si univano in un’unica melodia.
    No, no, no, no
    no, no, no, no, no, no,
    no, no, no, no,
    no, no, no, no, no, no,
    quando son con te non c'è altro posto dove vorrei essere!

    La frase finale era ben scandita come al solito ed era in particolare accompagnata da poche belle note in pizzicato. Insieme all'ultima sillaba tutti gli strumenti misero a segno il loro colpo decisivo, ponendo termine bruscamente ma con una certa gioia al pezzo.

    Video

    Il silenzio sarebbe durato di nuovo poco, questa volta però da qualcosa di particolare. L'introduzione del pezzo successivo l'avevo lasciata non alla musica, bensì a un rumore, il tranquillo scorrere di un ruscello. Lo avevo registrato con il mio Rotolo del Suono e l'avevo poi fatto inserire al momento giusto, per aggiungere forza evocativa alla partenza. Pochi istanti dopo la musica sarebbe partita effettivamente, con calma. Prima una chitarra, che introduceva con calma l'intervento degli altri strumenti con pochi accordi, senza dare indizi su quella che sarebbe stata poi la melodia vera e propria. Il secondo intervento fu quello delle percussioni, che per la prima volta nel disco non erano lasciate alla batteria bensì ai bonghi. Non ero molto portata per quello strumento, ma ne riconoscevo le potenzialità e la forza espressiva, per cui avevo insistito per inserirlo nel pezzo. E avevo richiesto che il suonatore fosse una mia vecchia conoscenza, Hiei, un ragazzo che avevo incontrato più di un annetto prima durante la mia permanenza nel Paese del Vento. All'inizio il ruolo di questa parte era minimo, tre colpi leggeri per attirare l'attenzione degli ascoltatori, ma nel corso della canzone avrebbe acquisito un'importanza notevole.
    Chitarra e bonghi rimasero a dialogare per un po', la prima sempre piuttosto lenta e tranquilla, i secondi pian piano più rapidi e decisi, poi sarebbe intervenuto un altro strumento. Si trattava del flauto traverso, a cui era affidata inizialmente una parte importante della melodia. Anche qui avevo avuto bisogno di uno strumentista, ero ancora alle prime armi con quel tipo di fiati. Per fortuna Yakumo, la flautista che mi era stata affidata dalla casa discografica, era davvero molta brava. Rispettò la mia composizione, riuscì a capirla e quindi a interpretarla al meglio. Non legammo più di tanto, ma di sicuro era una professionista con i fiocchi.
    Il suono dolce ma deciso del flauto avrebbe stabilito il ritmo di quella parte iniziale del brano, lieve e evocativa, arrivando ad un climax precoce, in cui sia quello strumento che le percussioni si interruppero per qualche istante. La chitarra da sola resse l'impalcatura musicale per un paio di battute, tirando il fiato dell'ascoltatore prima dello scatto decisivo, quello in cui provavo a mettere a segno la sorpresa più grande a mia disposizione. Il trillo acuto del flauto dava il benvenuto al nuovo arrivato, il A' phìob mhòr, la mia cornamusa. Quello strumento era stato un magnifico dono da parte di una donna che avevo aiutato, una ricompensa non richiesta e non sperata, ma infinitamente gradita. Era uno strumento non semplice, avevo avuto bisogno di una gran mano per capire come metterlo a frutto. Draig aveva iniziato spiegandomi la base, pur non avendolo mai suonato sapeva come funzionava, ma per diventare brava avevo avuto bisogno del supporto di un vero maestro. Lo avevo trovato nel proprietario di quel locale del Paese dell'Artiglio, Ashley, che mi aveva dato lezioni specifiche e aiutata verificando che facessi pratica nel modo corretto. Fu solo grazie a lui se fui in grado di ideare, comporre e infine suonare quel pezzo, senza la cornamusa non sarebbe stata la stessa cosa.
    Avevo intitolato quel brano "la caccia di Deiana", anche se inizialmente avevo in mente di utilizzare solo il nome della divinità. Erano in pochi a conoscere la mia religione, nessuno avrebbe capito. Il mio obiettivo era descrivere un episodio emblematico proprio sulla Dea della Luna, la vergine protettrice dei cacciatori. La chitarra rappresentava il lieve vento notturno, la calma dell'ambiente, il flauto invece era la preda, me l'ero immaginata come una lepre. Inizialmente era tranquilla, poi urlava alla vista del nemico e si dava ad una fuga disperata. La cornamusa invece era l'inseguitrice, Deiana, sotto forma di lupa. Incalzava il povero roditore, lo braccava senza tregua, i due strumenti musicali si intrecciavano e giocavano tra di loro, anche se nei piani doveva essere comunque chiaro il ruolo di ciascuno dei due, sia all'interno della metafora musicale che nella pratica. La cornamusa era protagonista evidente, ma i suoni si amalgamavano a dovere, ero soddisfatta del risultato finale. Verso la fine le note della inseguitrice si fecero più lunghe e dure, mentre il flauto aumentava il ritmo in maniera quasi disperata, con l’ultimo sforzo di volontà. La cattura era vicina, ma la lepre non poteva certo arrendersi. La melodia principale venne ripetuta altre due volte, poi il brano raggiunse il momento finale, quello in cui i due strumenti principali abbassarono il ritmo, si chetarono piano piano in un abbraccio sempre più stretto. Nella metafora era l’abbraccio mortale, quello con cui la Dea aveva avvolto la sua vittima. Era un finale dolce, nonostante fosse fatale ad uno dei protagonisti, la musica doveva cercare di rendere evidente questo stacco. La caccia sa essere brutale, ma non c’è male in essa fintanto che è naturale. Anche tra nemici terribili in natura c’è rispetto totale, senza spazio per rancori o scorrettezze. Rappresentare la sacralità della caccia vera, quella delle origini, mi aiutava a dimenticare il disastro che era stato l’empio spettacolo messo in piedi da Rokuro.
     
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    Il pianoforte iniziava solitario, calmo, ma dopo poche battute prendeva corpo e iniziava a risuonare. Non era una parte di pianoforte qualsiasi, era una musica rapida, intrigante, energica. Non era mia, era composta e suonata da Gonsou Ueta, un interprete abbastanza famoso e incredibilmente abile. L’aveva scelta per me, dopo che io avevo suonato per lui, per il suo disco. Era stato Josuhu a chiedermi di fare da strumentista per lui, avevo partecipato con il mio fido violino all’incisione di pezzi molto carini, tra cui uno intitolato “Sorella mia” che mi aveva colpito particolarmente. L’uomo era rimasto impressionato dalla mia abilità e mi aveva offerto una collaborazione, che capitò proprio a fagiolo. Infatti il settimo brano del mio progetto iniziale di disco era quello più debole, a detta di Rei. Si trattava della canzone che avevo composto in onore di Ichiro, mio zio e maestro, ma era troppo personale per il pubblico e oltretutto sovrapporre due pezzi strumentali di seguito sembrava un’idea ardita. Gonsou era dunque giunto proprio in mio soccorso con questa proposta, dandomi un’occasione irripetibile, una collaborazione che impreziosì il mio disco di esordio.
    Dopo circa mezzo minuto il pianoforte veniva affiancato prima della batteria di Yusuke, che dava un passo ancor più deciso al brano. Poi entrava il contrabbasso e infine il violino, che aveva anch’esso un ruolo di primo piano, anche se non quanto il piano.
    Dalla pace del mare lontano
    fino alle verdi e trasparenti onde
    dove il silenzio non ha più richiamo
    e tutto si confonde.

    Il testo era mio, lo avevo scritto pensando alle migrazioni, alle persone che facevano armi e bagagli nella speranza di un futuro migliore. Persone come Draig e suo padre, come Lilje e la sua famiglia, persone che lasciavano la loro terra amata e si avviavano verso l’incerto.
    Dalle lagune grigio e nere
    dal faticare senza riposo
    dalla sete, alla fame, allo spavento
    al più segreto tormento

    Erano tanti i motivi per voler fuggire, lo capivo benissimo perché l’avevo fatto anch’io. Non avevo retto la vergogna e il dolore per uno stupro subito e avevo cercato di allontanarmi dalla mia casa, proprio come il padre di Draig aveva scelto di lasciare il suo mondo per venire in questo continente, cercando un nuovo modo di vivere perché quello precedente non era più valido. Non era semplice, lo sapevo bene, era una scelta che cambiava totalmente le vite, la tua e delle persone a te più care.
    Ma è solo un’eco nel vento...
    il vento che mi risponde:
    Venga la pace dal mare lontano!
    Venga il silenzio dalle onde!

    Era un testo ricolmo di speranza e malinconia, a mio avviso pienamente adeguato alla musica che mi aveva donato Gonsou. La inarrestabile tenacia della batteria, l’energia vitale del pianoforte e il leggiadro patetismo del violino, tutti insieme dipingevano un quadro magnifico, a cui provai a dare il tocco finale con il testo e con la mia voce. Dare vita e autenticità ad un insieme già così unito e splendido era meno semplice del previsto, il rischio di rovinare tutto con parole superficiali o troppo dirette era effettivamente concreto, ma l’uomo si disse impressionato dal mio testo. Ero contenta gli piacesse, voleva dire che ero riuscita a interpretare bene e persino a migliorare il suo dono.
    Avemmo padri, avemmo madri,
    fratelli, amici e conoscenti
    ed imparammo a dare nomi nuovi
    ai nostri sentimenti...

    Passato, presente e futuro si univano in un tutt’uno, a rappresentare quella ricerca di completezza e unità che caratterizzava ogni individuo. Ognuno di noi cercava di essere se stesso, di trovare una propria identità che desse un senso alla sua esistenza, qualcuno o qualcosa per cui vivere. Ciascuno di noi cercava un motivo per andare avanti, era intrinseco alla natura umana. Mi piaceva cantare di persone diverse, raccontare storie pur nella forma breve che mi era concessa dal mezzo musicale. Io adoravo stare in mezzo alla gente, sentirmi parte del genere umano, adoravo le brave persone, per questo mi piaceva oltre che incontrarle anche narrare. In maniera imperfetta e forse un po’ infantile, ma speravo che le mie parole potessero arrivare comunque a qualcuno, che piacessero, che comunicassero qualcosa. Sapere di esserci riuscita mi avrebbe reso più felice di qualsiasi altro premio.
    Venga la pace dal mare lontano!
    Venga il silenzio dalle onde...

    Con quell’augurio finale di equilibrio tra passato e presente, con il richiamo alla speranza, il breve testo si concluse, lasciando spazio al genio musicale di Gonsou. Un grande, lungo ed entusiasmante assolo di pianoforte era il climax del pezzo. Le dita dell’uomo ballavano sui tasti con un’energia e un’eleganza invidiabili. Non sarei mai stata così brava, nemmeno con il violino, nemmeno tra cent’anni sarei arrivata al suo livello. E non erano virtuosismi fini a se stessi, erano parte integrante del brano, erano la degna conclusione del percorso, che infatti arrivò energica dopo tante note inanellate con una precisione senza pari. Ero fiera di aver incontrato un maestro del genere e di aver potuto collaborare con lui.

    www.veoh.com/watch/v137595008Bz2Nfwrz

    Una nota di accordion ripetuta in maniera continua dava il via all’ultimo brano del disco. Continuava per un po’, a cercare di dare un’atmosfera ovattata, sognante. Dopo poco interveniva il piano con una melodia semplice ma toccante. Karin, la pianista assegnatami dalla casa discografica, era davvero bravissima e, nonostante avesse solo quindici anni, aveva chiaramente un futuro radioso davanti a sé.
    Tieni al petto il tuo vecchio libro di preghiere
    vuoi scoprire se sono vere
    ti vuoi fare benedire.

    Quell’aria sospesa, quasi onirica veniva confermata dal testo. Quello era un canto strano, un canto di morte, ma allo stesso tempo era dolce e affettuoso. Era un inno alla bellezza della vita, anche se dal punto di vista della sua fine. Ed era una canzone piena di religiosità, anche se non per forza quella specifica dei Sette, erano parole che si adattavano quasi a ogni culto in cui gli uomini credevano.
    E giàààààà lo saiii
    Sì, giàààààà lo saiii
    Come questo finirà!

    Il pianoforte aveva interrotto la sua musica durante le strofe, lasciando l’accordion da solo, come nell’introduzione. In questo modo veniva dato più risalto al testo, ero convinta. Dopo il ritornello c’erano alcune battute solo strumentali di grande importanza. Dei violini suonavano la melodia principale, gioviale e energica.
    Non c’è via di fuga
    dagli antichi canti santi
    da tutti i perduti amanti
    per sempre non è poi così lungo.

    La parte vocale interveniva dunque a gamba tesa, riprendendosi il suo spazio. La seconda strofa veniva accompagnata dalla batteria di Yusuke, sempre bravissimo anche quando gli davo poco spazio nelle mie composizioni. Anche il contrabbasso si univa in alcuni rari punti, a dare il suo solito supporto.
    Il testo si faceva malinconico, più di prima. Erano i racconti di una vita, delle sofferenze, delle ferite, della tenacia di non mostrarla ai propri cari, per non metterli in difficoltà. Ancora una volta dopo il breve ritornello si facevano vivi gli altri strumenti per la melodia principale. Il pezzo era molto chiaro nelle sue dinamiche, ma questo non inficiava per niente la sua espressività.
    Ora li hai visti in volto
    e hai scoperto che avrai un posto
    lì nel sole
    per tutto quello che hai fatto
    per te e per i tuoi figli

    Con l’affetto di prima cullavo il protagonista del testo, rassicurandolo sul suo futuro dopo la morte. Un futuro riconoscente, ricco delle gioie del passato ma privo di dolori. Una vera e propria ricompensa, superiore a qualsiasi immaginazione. Ancora una volta ritornello e melodia principale si davano il cambio, ma in questo caso la seconda era persino più corta, visto che la voce si sovrapponeva per poche parole finali.
    Tu giàààààà lo saiii
    Sì, giàààààà lo saiii
    Tu amerai come finirà!

    Dopo quell’ultimo addio della voce il pezzo raggiungeva il suo climax, il punto focale della musica e in qualche modo il punto di espressività massima dell’intero disco. Il violino interveniva all’improvviso, portando al massimo la pateticità, la potenza e l’espressività della musica. Poche note ma ben piazzate, accompagnate dalla melodia principale del piano e dalla batteria. Dopo i primi acuti, imponenti nella loro comunicatività emotiva, il violino ripeteva quella nuova melodia, però man mano con meno trasporto, in maniera più lieve e dolce. Era lo sguardo tenero rivolto ad una vita che si stava per interrompere, perfetta nella sua imperfezione, meritevole di essere immortalata in un racconto e di essere ricompensata in eterno. Non mi ero ispirata a nessuno in particolare, era una canzone dedicata a tutte le belle persone che avevo incontrato, a tutte quelle che avrei conosciuto in futuro, all’intera umanità che adoravo più di ogni altra cosa. Ecco, quello era il modo giusto di concludere il mio disco, ascoltando quell’outro strumentale ne fui totalmente convinta. Il pianoforte continuava a suonare in parallelo, lasciando però il violino solo per le battute finali, per sottolineare il momento in cui la musica finiva, così come il respiro del protagonista. Poi silenzio.




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    Demone velatore

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    Aiko riceve 10 exp e 75 ryo.
    Il suo disco, inoltre, è ora in vendita in diversi negozi dedicati del Paese della Neve!
     
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