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.CITAZIONEContendenti: Rutja Saijin vs Kiria Yami Uchiha
Luogo: Locanda chiamata "L'oca assassina", a pochi chilometri da Taki. È preferibile combattere al di fuori di essa, su una piccola radura sul retro del locale.
Orario: Primo pomeriggio.
Meteo: Sereno e temperatura media.
Numero di post: Non limitato.
Turni: Il primo che posta decide.
Regole speciali: Nessuna.. -
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Sola, fissando il liquido bianco contenuto in un bicchiere di vetro, si perse nei suoi pensieri.
Si preannunciava una splendida giornata.
Deichi aveva preso -non senza fatica- un giorno libero da dedicare interamente a sua sorella minore, che gironzolava gongolando seguendo i passi del fratello.
Sicché Kiria desiderasse ardentemente visitare "ogni posto del mondo", Deichi aveva acconsentito alla richiesta a tratti petulante incentrata sul trascorrere un paio di giorni lontano da Konoha, in qualche paese vicino.
Tutto, di conseguenza, appariva perfetto innanzi agli occhi dorati della giovane Uchiha: una gita- la prima gita!- con l'amato fratello in un posto a lei sconosciuto, lontano dai parenti, lontano dalle missioni, lontano dalla freddezza che di tanto in tanto provava ad affermarsi nel loro rapporto. Era effettivamente un'occasione di rinascita, e si meravigliava di se stessa per la matura considerazione che dava a quella che ad altri bambini sarebbe apparsa come una mera scampagnata familiare.
Aveva addirittura preparato dei sostanziosi cestini da pranzo, nel caso in cui avessero tardato o semplicemente avessero avuto fame durante un cammino che Kiria immaginava gioioso e pieno di racconti fantastici del fratello inerenti alle sue missioni.
Ogni avvenimento sembrava la perfetta realizzazione dei suoi desideri più minuziosi: così, la volta turchese del cielo era priva di nuvole, lasciando che un sole delicato illuminasse il cammino che li avrebbe condotti fino al Paese della Cascata, affondando i suoi raggi fino alle profondità di limpidi ruscelli, che di tanto in tanto apparivano attraverso il manto di alberi.
Quando oramai correvano pochi chilometri a dividere i due da Taki, mentre Kiria era totalmente persa in un racconto del fratello, che enfatizzava i suoi discorsi dando voce ai personaggi che caratterizzarono quella missione di livello S di cui faceva vanto, un anbu dal volto coperto si avvicinò ai due, raggiungendoli a passo svelto.
Deichi fece un cenno con il capo alla sorella, che cupa in voltò si allontanò, per assistere al muto discorso accompagnato da segni di assenso da parte dell'uomo dal volto coperto, seguiti da vivaci repliche. Il tono era basso, ma Kiria capì subito di cosa si trattasse, così come capì le conseguenze di quella conversazione.
Quando Deichi si avvicinò, il volto celato da un velo di mortificazione, fece per parlare, ma Kiria fece spallucce e gli diede le spalle, per celare gli occhi che di lì a pochi istanti sarebbero divenuti lucidi.
«Deve essere importante, quindi va' pure. e porta con te il cestino del pranzo. Mi fermerò a Taki per poco, poi tornerò a casa. Ti aspettano» aggiunse, inamovibile sul lasciar parlare il fratello: non vi erano scuse, né promesse che avrebbero dato sollievo al suo dolore. Più della gita andata in fumo, più del ritrovarsi da sola in un posto nuovo, era la rottura della promessa a ferirla: le considerava rivestite di una sacralità tipica dei bambini, ed ora che proprio suo fratello veniva meno, si sentiva persa, profondamente ferita.
Sola, lasciò che lo sguardo passasse dal latte all'omone barbuto che gliel'aveva versato.
Era poco aggraziato, poco educato, poco piacevole alla vista. Era entrata pochi minuti prima in quel luogo che risultò accogliere principalmente viandanti o uomini che, potenzialmente senza un lavoro, dedicassero il pomeriggio a lunghe bevute, nel vano di affogare nell'alcool la tristezza delle loro vuote esistenze; subito quello che potenzialmente doveva essere il proprietario le aveva destinato il suo più deplorevole sguardo, mentre la sua esile figura si arrampicava con grazia sull'alto sgabello posto al centro di sei, che circondavano un lungo bancone posto dal lato opposto all'entrata del locale.
Il locale, piccolo e circolare, era completamente in legno: il pavimento impolverato, in particolare, era di un legno scuro, e di tanto in tanto qualche piccola macchia si affermava nei lati più remoti dei lunghi tavoli rettangolari, dove pochi andavano a guardare. D'altronde, il posto non pretendeva di affermarsi per la pulizia o per particolari caratteristiche: grazie a prezzi abbordabili e ad una giusta posizione, l'omone barbuto doveva riuscir a tirare avanti senza preoccuparsi troppo dei dettagli, servendo i viandanti con una certa rapidità e offrendo loro un menù alquanto vasto. Il suddetto menù le era stato dato con aria di sufficienza, come se il proprietario risultasse in dovere di avvertire con i gesti oltre che con lo sguardo che la presenza di una bambina ne "L'oca assassina" era poco desiderata. D'altronde, il nome stesso prometteva un locale di un certo tipo, altrimenti l'avrebbe chiamato "Mamma oca" o "L'oca felice". Aveva addirittura affisso una voluminosa bacheca proprio accanto alla cassa, dove si potesse inserire richiesta per cercare sfidanti, in un combattimento pacifico (o meno, all'omone poco interessava) che si sarebbe svolto nella radura alle spalle del locale.
Anche alcuni degli uomini nel locale le avevano riservato uno sguardo che celava un misto tra curiosità e riserbo, come se si sentissero invasi in un ambiente che li apparteneva intimamente.
«Vorrei del latte freddo, per cortesia» aveva chiesto Kiria, restituendo con pacatezza il menù all'omone, che quasi si sentì offeso dall'insolita richiesta: del latte a "L'oca assassina".
I soldi, tuttavia, eran pur sempre soldi, così si era limitato a versarle il liquido bianco in un bicchiere e darglielo, borbottando qualcosa come "fai in fretta" o giù di lì a cui l'Uchiha non diede valore, poiché già persa nei suoi cupi pensieri.
Sola, lasciò nuovamente che il suo triste sguardo ricadesse sul latte, ancora intatto, dove le speranze per la sua gita perfetta affogavano silenziosamente.. -
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Ora che i pensieri erano divorati meno voraci degli altri sensi e la testa un luogo meno caotico, poteva sentire più dettagliatamente i commenti che la sua presenza in quel posto suscitava. Era tuttavia cosa che non la infastidiva, nonostante di quei brusii volgari di sottofondo capiva ben poche delle parolacce che li colorivano.
E come poteva lei, con la sua rigida educazione, conoscere anche solo la metà dei termini utilizzati da quegli uomini che puzzavano di alcool e sudore e vita sprecata?
Tirò giù un sorso del suo latte, constatando che non era per nulla buono come quello che le veniva comprato da Deichi, e tuttavia ebbe abbastanza clemenza nell'uomo da non fargli un elaborato discorso sull'importanza della qualità degli ingredienti nell'arte culinaria, capendo che la maggior parte dei presenti dava ben poca importanza al cibo.
«Un altro di latte caldo!».
Si voltò verso destra, incuriosita dallo scoprire chi altri in quel posto potesse chiedere del latte caldo da bere, preferendolo ad una di quelle voluminose pinte che traboccavano schiuma sul pavimento, andando a generare nuove macchie destinate a giacere lì per tempo indeterminato.
Quando vide la fonte di quella voce maschile fu... sorpresa. Non sapeva esistessero persone dotate di molteplici paia di braccia nel mondo, e fu fortemente incuriosita da quella figura: era nata così? Lo era diventato a seguito di esperimenti?
Inoltre aveva dei capelli davvero buffi (che generarono nella bambina la voglia di sprofondarvi le mani all'interno per qualche istante, al solo fine di scoprire come sarebbero risultati al tatto) e una carnagione che ben si distingueva da quella dei presenti -che fosse straniero anche lui?
Mentre la mente della bambina compiva nuovi viaggi verso storie che vedevano lo strano uomo come protagonista, il maleducato e rozzo proprietario propose a "Linguasecca" di scortare la bambina fino al "tavolo dei disadattati" perché i ninja hanno "un sacco di cose" da dirsi.
Le stava forse dando della disadattata?
Provò un nuovo senso di repulsione verso l'omone e la sua fastidiosa risata, accompagnato dal desiderio di fare qualcosa -che fosse rispondergli o fargli del male, ancora non riusciva a decifrare bene in cosa la sua rabbia volesse convertirsi.
Decise tuttavia di seguire i dettami frutto dell'educazione che le era stata pazientemente inculcata, i quali prevedevano non si perdesse tempo con esseri inferiori. E l'omone, senza false modestie, era stato etichettato sin da subito come essere inferiore.
«Vuole unirsi a me?».
Fu immensamente sorpresa di scoprire il ragazzo così cortese, oramai abituata al rozzo modo di comunicare dei presenti, per cui gli sorrise con una certa spontaneità, afferrando con entrambe le manine il lungo bicchiere di vetro contenente ancora metà latte -le piaceva bere piano, in modo da gustare al meglio il liquido, sebbene in quel caso ci fosse poco che potesse deliziarla- per poi scendere con grazia dall'alto sgabello.
«Mi farebbe piacere» asserì, sebbene fino a qualche istante fa era ben ferma sull'idea di abbandonare quel postaccio nel più breve lasso di tempo possibile. Ricordava benissimo gli insegnamenti sul "non fidarsi degli sconosciuti" e sulle "cose brutte che accadono alle ragazzine quando sono sole con un estraneo", ma era immensamente incuriosita dalla figura che l'aveva invitata a farle compagnia per declinare l'invito. Inoltre, avrebbe ben volentieri perfino passato la notte in quel postaccio, se questo fosse servito ad infastidire a dovere il proprietario, ormai nemico della bambina.
Dopo un'ultima occhiata di disprezzo destinata all'uomo, che ora se ne stava tutto soddisfatto a sghignazzare per il risultato ottenuto, pulendosi quel paio di mani enormi su quella che era stata una bianca canottiera, ora imbrattata da sudore e svariate macchie, Kiria guardò con più attenzione il locale, notando che il "tavolo dei disadattati" citato doveva essere l'unico libero, posto lontano da tutte le piccole finestre in modo da essere totalmente in ombra, accanto al bagno delle signore, la cui maniglia della porta era coperta da uno strato così spesso di polvere da provare la rarità di un essere di sesso femminile che varcasse la soglia di quel posto.
Cominciò a camminare tra lo stretto corridoio di tavoli, guardando dubbiosa uomini che parlavano di mogli che si rifiutavano di avere rapporti, consigliati da altri uomini verso donne a pagamento, uomini che si impegnavano con voluminose braccia in un braccio di ferro che sembrava togliergli ogni energia, e uomini che ridevano apparentemente senza motivo di fronte a fila di boccali vuoti.
«Mi chiamo Kiria Yami. Lei come si chiama?» avrebbe chiesto una volta giunti a quel tavolo di legno, piccolo a tal punto da poter accogliere al massimo due persone, sul quale altri prima di loro avevano inciso -forse con coltellini, forse con forchette- frasi a cui la bambina avrebbe dato poco peso. Sperava vivamente di trovarsi al cospetto di una persona logorroica, che avrebbe preso a narrare della sua storia e del perché del suo aspetto, che tanto incuriosivano la bambina.
Per quanto concerne l'omissione del cognome, questa fu una scelta ponderata, che poco era legata all'effettivo desiderio di nascondere chi fosse: semplicemente, non voleva che si creassero aspettative di sorta, o pensieri di sorta, o pregiudizi di sorta basati sul semplice fatto di presentarsi come un'Uchiha.. -
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.SPOILER (clicca per visualizzare)Io adoro i tuoi titoli
Un timido raggio di sole si fece strada fino ad illuminare la spalla destra del ragazzone e l'occhio sinistro della bambina, il cui dorato pareva quasi risplendere in quelle particolari condizioni. Magari, altre persone sarebbero perfino state entusiaste di una simile peculiarità, ma per Kiria quella era una mera condanna. Chinò il capo, contemplando per alcuni istanti il contenuto bianco del suo bicchiere, nuovamente all'ombra quasi rassicurante destinata a coloro i quali sedevano in quel tavolo.
Rifletté poi sul nome del ragazzo, quasi a contemplarne la vistosa differenza con il suo: tutto nel mondo era così diverso da come lo aveva immaginato durante gli anni chiusa in casa, a partire dai nomi delle persone, a partire dal rozzo modo di vivere di esseri di cui neppure contemplava l'esistenza. A questo proposito, un tanfo di vomito andò a mischiarsi con gli altri sgradevoli odori del posto, facendo arricciare per alcuni istanti il naso di Kiria: era tutto così sgraziato e indecente in quel posto, tutto tranne colui che a prima vista altri avrebbero reputato come l'essere più sgraziato e indecente.
Notò anche con un po' di stupore che, nel presentarsi, Rutjia aveva fatto riferimento al proprio grado e villaggio di appartenenza, e si chiese se non fosse consuetudine e buona educazione procedere in quel modo nel momento in cui si parlava con uno straniero.
Ci avrebbe sicuramente riflettuto su.
«Lei è curiosa, signorina, non è vero? Mi chieda pure quello che desidera...».
Le piaceva il tono formale di Rutjia, poiché la faceva sentire a casa, quasi a suo agio. Le piaceva anche il suo sorriso, ma probabilmente perché privo della malizia che attanagliava ogni piccola molecola di quel posto.
Gli occhi della bambina tornarono a fissare con una curiosità vispa e quasi invadente Rutja, mentre un sincero sorriso prese vita sul suo volto. Era effettivamente entusiasta, come suo solito, della possibilità di poter esplodere in tante domande senza porsi freni, e tuttavia dovette attendere qualche secondo prima di parlare: si ricordò di Walter, e della sua reazione improvvisa alle sue parole apparentemente così innocue. E Walter era buono.
Avrebbe ad ogni modo dovuto far qualcosa, prima o poi, per quel lato del suo carattere così palesemente entusiasta e curioso di fronte a nuove persone e alle loro storie: prima o poi avrebbe potuto cacciarsi in un brutto guaio.
"Se mi ha dato esplicito permesso di fare domande, sicuramente non sarà poi tanto permaloso" constatò meditabonda, cercando di addentrarsi invano in una sorta di descrizione psicologica del suo interlocutore in base alle poche parole che si erano scambiati.
Non era -non ancora almeno- così brava nel capire le persone, e nonostante ciò non si diceva neppure capace di lasciar sospese le domande ormai nate in lei. Optò dunque per qualcosa di generico, in modo da dare al ragazzo la possibilità di toccare da solo i tratti salienti della sua vita, evitando ciò che ritenesse opportuno una bambinetta di Konoha non sapesse.
«Come mai lei è... così? Ha forse ereditato il suo aspetto da sua madre o suo padre?».
All'ultima parola non fu destinato un tono diverso dal resto della frase, bensì seguì un lieve cenno con il capo, come a sottolineare il suo puerile tentativo di non esser offensiva o indelicata in alcun modo.
Avrebbe ascoltato in silenzio le spiegazioni di Rutjia, dondolando di tanto in tanto le gambe e sorseggiando pian piano il freddo latte restante.. -
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L'iniziale silenzio che derivò dalla sua domanda portò Kiria a chiedersi se effettivamente una simile frase non potesse risultare offensiva o indelicata. Non le andava, al contempo, di aggiungere inutili parole per far sembrare quanto detto meno delicato, perché non reputava ce ne fosse bisogno: ai suoi occhi, Rutja non era sbagliato, era solo diverso, e non trovava nulla di sbagliato nella diversità.
Così, rimase in silenzio ad ascoltare pazientemente, lasciandogli il tempo di formulare la risposta come più ritenesse opportuno, riflettendo se quel silenzio era indice di una storia tortuosa o di un'elaborata menzogna.
«A dieci anni mi sono ritrovato a dover cercare da mangiare da solo per me e il mio fratellino in una città sconosciuta. Ma siccome nessuno voleva darmi da lavorare, pur di avere qualcosa da mettere sotto i denti iniziai a rubare. Dopo che mio fratello morì...»
Il silenzio che seguì fu riempito da uno sguardo traboccante di dispiacere di Kiria, i cui occhi sgranarono e per poco non si inumidirono di lacrime, in una sorta di profonda empatia verso Rutja: immaginò il lacerante dolore della perdita di un fratello, immaginando per pochi, struggenti istanti la propria vita senza Deichi, e quasi si sentì male nell'apprendere del dolore che aveva segnato la vita del genin di Taki. Se fosse cresciuta con abitudini diverse, più aperte e meno rigide, probabilmente l'avrebbe abbracciato, piccina piccina in una figura così grande, piangendo ininterrottamente.
Non specificò il suo stato emotivo fortemente provato, né espresse il proprio dispiacere: a cosa serve la commiserazione di un estraneo quando nulla può riempire il vuoto che lasciano coloro i quali amiamo nel momento in cui ci abbandonano per sempre?
Ascoltò il resto del discorso in silenzio, senza riuscire a nascondere il dolore provato nell'apprendere della morte del fratello, riflettendo sulla relatività della storia raccontatale: ora, Rutja appariva come un povero disgraziato che si era concesso a cose deplorevoli per la mera sopravvivenza, manifestando una tenacia e un attaccamento alla vita davvero ammirevole. Se questa storia, la stessa storia, fosse giunta a lei tramite terzi, Rutja sarebbe stato descritto come un indisciplinato essere privo del buon senso, perché nessuno ascolta mai coloro i quali gridano aiuto in silenzio, nessuno guarda oltre la fallacia delle apparenze.
Prima di rispondere toccò a lei riordinare le informazioni ricevute, nell'istintivo tentativo poi di immedesimarsi in una storia così ricca di eventi e al contempo radicalmente diversa dalla sua esperienza di vita: lei sarebbe sicuramente morta con il fratello, e ad ogni modo mai avrebbe avuto la forza di aggrapparsi alla vita con così tanto ardore, tale da sopportare umiliazioni, sofferenze, rimorsi al solo scopo di continuare a sopravvivere.
Poi capì: Rutja viveva per entrambi.
Nella sua vita, nel suo disperato tentativo di continuare a vivere, c'era anche il fratello, incentivandolo ad una sopportazione ammirevole, e lei -come sorella minore- non poteva far altro che apprezzare questo gesto: semmai fosse morta, Deichi avrebbe dovuto fare lo stesso.
Erano proprio tipi interessanti, quelli diversi.
«Questo è quanto... Alla fin fine sono passato da fare lo schiavo di un gruppo di mafiosi a diventare di nuovo uno schiavetto dell'esercito più scarso al mondo... Ironico, non trova anche lei?».
«Lei è troppo severo con se stesso. Sia più ottimista: è passato dal limitarsi a sopravvivere al poter vivere: molti altri si sarebbero arresi al suo posto, piegati innanzi alle continue difficoltà che lei ha affrontato. Ha sopportato davvero tanto, essere uno strumento in mano al signore di turno sembra esser un prezzo sopportabile per la libertà».
Nonostante la giovane età, Kiria comprendeva appieno cosa volesse dire "diventare lo schiavetto dell'esercito", poiché chiari eran stati gli insegnamenti che il padre aveva suo malgrado lasciato: un ninja è uno strumento applicato ad un contesto, che sia questo una semplice missione o una guerra.
C'erano delle cose di quella storia che tuttavia meritavano ulteriori specifiche: oltre al modo in cui era morto il fratello, che mai avrebbe chiesto perché lei per prima non avrebbe potuto sopportare il dolore che il solo pensiero le recava, vi erano persone la cui fine non era meglio specificata.
«I membri dell'organizzazione sopravvissuti o liberi non l'hanno mai cercata? E che fine ha fatto lo scienziato pazzo? Non è utile ai fini scientifici creare qualcosa e poi abbandonarla a se stessa».
Per Kiria, compito di colui che gli aveva donato quell'aspetto era prendersi cura della propria creazione, che sia per affetto o per interesse, perché nessuno mai dovrebbe esser abbandonato, per nessun motivo.. -
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Gli occhi scuri del ragazzo si nascosero dietro un velo umido, in una naturale reazione alle parole di Kiria, che gli sorrise dolcemente, quasi a poter alleviare con quel sorriso i sensi di colpa, quasi a poter allontanare eventuali ricordi nostalgici. Riusciva a guardarlo negli occhi (e già da sé questo era fatto speciale, data la sua incapacità nel reggere lo sguardo delle persone), provando un senso di sorpresa la rapidità con la quale si era abituata all'aspetto di Rutja, l'innata capacità di non trovare nulla di strano in lui. Quelli strani erano quei morti che parlavano e bevevano e ruttavano credendosi vivi, non lui. Non loro.
«Purtroppo non è più in questo mondo. Era una persona molto "strana", ma provavo molta riconoscenza verso di lui, per quello che aveva fatto per me. Però dovetti ucciderlo. Stava tramando qualcosa contro Taki, il mio villaggio. Lui probabilmente avrebbe voluto che seguissi i suoi ideali, ma ho scelto di non farlo. Uno schiavo non può avere due padroni...».
Per un piccolo istante Kiria tradì la sua espressione, aggrottando le sopracciglia in segno di perplessità. Taki? Rutja aveva davvero ucciso un uomo verso il quale provava riconoscenza -un uomo che a modo suo lo aveva salvato- per qualcosa di astratto e indefinito come Taki?
Quella spiegazione minò quello che viene definito come equilibrio cognitivo di Kiria. Aveva forse compiuto un errore di valutazione? Non poteva accettarlo. Una persona con un simile passato, una persona che ha dovuto meritare la vita più di altri non poteva rigettare riconoscenza e gratitudine per qualcosa di lato come un paese, un paese che ha avuto solo sofferenza da offrire.
"Uno schiavo non può avere due padroni". Pensò a Deichi nelle sue vesti di schiavo della famiglia, assoggettato alle necessità prima della sorella minore, poi del resto del clan. Pensò alle difficoltà, alle sofferenze, alla pesantezza di una situazione destinata a diventare insostenibile, e si ritrovò a concordare con Rutja: uno schiavo non può avere due padroni.
"Chi è il tuo vero padrone, Rutja?"
Quel pensiero corse con prepotenza via dalla sua testa, nel tentativo di fuoriuscire da quel corpo e cercare risposta, ma morì soffocato: c'erano cose che non doveva sapere.
Cercò di nascondere alla meno peggio la certezza che qualcosa non le era stato detto, in un forzoso tentativo di donare ai suoi lineamenti la naturalezza che li aveva caratterizzati fino a quel momento, scoprendosi a destinare al ragazzo un nuovo, contorto sorriso. Un sorriso colpevole, un sorriso che pareva dire "non volevo non crederti".
Rutja bevve il suo latte e lei fece lo stesso, godendo di quel breve silenzio per ricomporsi, forzandosi a non porre domande a lui né tanto meno a se stessa sul motivo che portava una persona ad omettere qualcosa (o mentire) circa il proprio passato.
«Nessuno di quelli dell'organizzazione mi ha mai più cercato. L'unico sopravvissuto libero oltre a me era il boss, che era fuggito in un altro paese. Lì aveva fondato una nuova organizzazione e, per puro caso, ero stato rapito da essa durante un viaggio. Il boss, una volta riconosciuto, mi ha chiesto di unirmi a lui. L'ho fatto, anche se solo per finta. Finché mia moglie ha fatto irruzione nel loro covo e insieme abbiamo distrutto tutta la nuova organizzazione. Mia moglie è riuscita a uccidere il vecchio capo, anche se ciò le è costato la vita...».
Lo sgomento per la perdita di un'altra persona amata uccise definitivamente i dubbi della bambina: suo fratello e sua moglie erano morti. Rimase in silenzio, emettendo solo un lieve gemito che espresse tutto il dolore e lo sconforto dell'Uchiha. Avvertì nuovamente un lieve bruciore agli occhi, intenti in un'umida protesta per le lacrime mai versate, ma non riuscì a far altro che rimanere in silenzio, schiacciata da quelle sorti avverse, in un misto di ammirazione e tristezza.
Perdere due persone care. Ne sarebbe morta -e forse probabilmente perché aveva solo due persone care al mondo.
Il dispiacere capì ben presto di non poter liberarsi di quel corpo attraverso le lacrime, allora protestò arrivando allo stomaco, causandole una sorta di fitta che le impedì anche di guardare il contenuto del suo bicchiere. Era nauseata. Una sola persona non dovrebbe mai soffrire così tanto.
«Spero non abbia figli: saprà che vivere senza madre è brutto...».
Fu tutto ciò che riuscì ad affermare in un tono estremamente cupo, con un linguaggio così elementare (brutto al posto di un aggettivo che avrebbe meglio espresso il suo pensiero) da essere alieno alla sua persona.
«A quanto pare tutte le persone che amo o rispetto hanno la tendenza a morire terribilmente. Le consiglio di non piacermi troppo, signorina!»
Chiuse la bocca, scoprendo solo in quel momento di averla lasciata semiaperta dopo quel macabro racconto, per poi cimentarsi in un forzoso sorriso.
«Io non morirò...».
"...Così lei potrà essermi amico e io potrò esserle amica e non dovrà temere di nuovo la solitudine".
Lo reputò un pensiero infantile, e non riuscì ad esprimere nulla a riguardo, nonostante la sincerità che avrebbe segnato ogni singola parola.
«Devo diventare forte per stare accanto a mio fratello e per non dargli problemi. Io non moriro, quindi posso...»
"...Posso starle vicino e qualche volta addirittura aiutarla!".
«...Offrirle altro latte?»
Chi era, perché aveva omesso qualcosa (o mentito). Nulla aveva importanza.SPOILER (clicca per visualizzare)Scusami anche tu per il ritardo, ma tra studenti ci si capisce
Kiria non sa che la moglie lo odiava, quindi ha preso la cosa malissimo, immaginando il matrimonio di Rutja come solo una dodicenne può fare. -
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Quando Rutja si alzò, facendo sentire Kiria ancor più piccina data le corporature così differenti dei due, l'Uchiha ponderò per alcuni istanti l'idea di averlo offeso in qualche modo.
Era davvero nuova a conversazioni così lunghe con un perfetto estraneo, e aveva considerato solo in quel momento l'idea che non stava ponderando con estrema meticolosità ogni parola. Era una conversazione normale tra due persone normali, o una conversazione anormale tra due persone anormali, visto che intorno a loro perni delle discussioni erano sesso (c'era una signorina, di grazia!), alcolici, penuria di soldi (non sufficiente ad allontanarli dai litri di "roba" che bevevano ad ogni modo) e poi di nuovo sesso in tutte le sue varianti.
Conversazione anormale tra due persone anormali. Kiria provò un misto di sollievo e felicità nel rivedersi come tale.
Il volto di Rutja allontanò l'idea che potesse esser offeso, sembrando quasi felice di poter prolungare il tempo insieme alla ragazzina, mentre si offrì di darle altro latte freddo. Annuì contenta, destinandogli un ampio sorriso.
Attese Rutja in silenzio, inizialmente guardandolo con aria incuriosita; poi, consapevole di quanto potesse esser maleducato quel suo sguardo scrutatore, si voltò per vedere l'albero che silente sembrava sorvegliare un ampio spazio vuoto.
Quando Rutja tornò, si voltò per prendere il suo latte, sorridendo nuovamente. Erano sorrisi sinceri, e si trovò stranamente a proprio agio nel farli.
«Grazie mille, lei è molto gentile».
I ragazzini, Kiria per prima, hanno bisogno di esprimere il proprio pensiero su un gesto o su di una persona, spogli da quei freni inibitori che con il tempo la società si occuperà a ricreare.
«Bene... Adesso però vorrei farle io qualche domanda! Le va di rispondermi?».
Kiria lo guardò per un attimo confusa: voleva davvero sapere qualcosa di lei?
«S... Sì, certo».
Si trovò stupida in una risposta così poco articolata, ma il bisogno di rispondere presto e di assumere un'espressione meno inebetita la spinsero a badar poco alla forma delle proprie parole. Il ragazzo non esitò a porle le proprie domande, convincendo Kiria sulla sincerità del suo interesse.
«Cosa l'ha portata a divenire shinobi a una così giovane età? E come mai si trova qui, adesso, in questo posto ai confini del mondo civile?».
La prima domanda era quella a cui era più abituata e tuttavia la più difficile a cui rispondere. Avrebbe dovuto lavorarci su sulla spiegazione, dedicare un intero pomeriggio alla ricerca di una verità che non entrasse troppo in particolari come "la mia famiglia mi vorrebbe morta, per cui questo è un disperato tentativo di piacere o quantomeno di imparare a difendermi".
Per il momento, occorreva dedicarsi sulla seconda parte della risposta, quella che comprendeva la difesa da qualcosa. Ma da cosa dovrebbe difendersi mai una ragazzina di dodici anni? Il bulletto dell'accademia? L'ultima bambola dai prezzi esorbitanti?
Non sapeva e non voleva mentire, e questo rappresentava per lei un piccolo difetto: Rutja aveva sicuramente prestato attenzioni a cosa dire ad un estraneo, mentre lei non ne era capace, non con un estraneo così piacevole!
Bevve un po' di latte, come nel tentativo di cercar tempo per formulare una risposta che potesse risultare vera e completa.
«Voglio imparare a difendermi da sola, senza esser di peso per le persone che amo. Nessun ideale sulla pace nel mondo o sciocchezze simili, in cui in genere son portati a credere i miei coetanei. Mio fratello maggiore è tutto ciò che ho, non posso permettergli di rischiar la vita a causa mia».
C'erano tante cose da cui difendersi nel mondo, e una persona dal passato tormentato come Rutja l'avrebbe capito senza troppi problemi. Ora doveva rispondere alla seconda domanda, e lì non ebbe esitazioni di sorta. Le faceva piacere sfogarsi con qualcuno.
«Ed è proprio a causa di mio fratello se sono qui, da sola. Mi aveva promesso avrebbe avuto l'intero giorno da dedicarmi per portarmi in giro, e magari avremmo anche potuto allenarci. Invece è andato via con uno di quei fastidiosi tizi mascherati che compaiono dal nulla» spiegò con volto cupo. Provava una profonda gratitudine verso Rutja, poiché l'aveva salvata dalla solitudine di quella giornata che prometteva tristezza, nonché dal tocco sudicio di qualche mano dei presenti. Si sentì poi in colpa per aver parlato di Deichi in quel modo, lasciando che si potesse aver di lui l'impressione di un ragazzo che abbandona la propria sorella minore. Anche Rutja, dopotutto, era stato fratello maggiore (un ottimo fratello maggiore, ipotizzava Kiria), quindi probabilmente avrebbe potuto capire meglio di lei cosa muovesse Deichi.
«Non che sia una cattiva persona! In genere mantiene sempre le promesse, quindi suppongo si sia trattato di qualcosa di veramente importante... Solo che mi manca tanto... Passiamo davvero poco tempo insieme da quando nostro padre è morto...».
Divenne nuovamente cupa, seppur non per il pensiero della morte del padre. Quello veniva considerato da Kiria come un evento normale nella sua vita, paragonabile al sole che sorge o al doversi nutrire per sopravvivere.
I padri ti mettono al mondo, lasciano tu viva nella solitudine e poi muoiono, lasciandosi dietro nient'altro che qualche ricordo che il tempo avrebbe cancellato.. -
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«Provi a pensare dalla sua prospettiva: se è qualcosa per cui è disposto a rinunciare al prezioso tempo con la sua sorellina, deve essere di sicuro una cosa importante, a cui non poteva rinunciare per niente al mondo. Probabilmente anche a lui, lei manca tanto... Non può essere altrimenti...».
Kiria sorrise vistosamente, nella più totale incapacità di celare l'entusiasmo che quelle parole le donavano. Rutja era stato un fratello maggiore, e questo portava Kiria a ritenerlo una sorta di "Deichi altrui" che non avrebbe saputo descrivere in altro modo. Così, quelle parole le sembravano incredibilmente vere, come se fosse stato suo fratello stesso a proferirle: lei mancava a Deichi. L'idea di punirlo con i suoi micidiali biscotti lasciò spazio ad un forte desiderio di tornare a casa, aspettarlo e abbracciarlo con quanta forza disponesse, per poi ringraziarlo dei sacrifici ed asserire un improvviso "mi manchi anche tu".
Mentre la sua fantasia puerile le proponeva liete immagini familiari, notò che i lineamenti di Rutja parvero contorcersi in un'espressione che pareva ora dolorante, ora infastidita (mentre con tutta probabilità lei doveva averne assunta una molto inebetita a causa dell''improvvisa ondata di gioia).
Cominciò a chiedersi se non fosse stata lei la fonte di quella sorta di disagio che ora andava pian piano svanendo, liberando il volto del ragazzo da quell'aria seccata, ma fu Rutja a rompere per primo il silenzio, informandola su un "attimo di mal di testa", informazione che non rese l'Uchiha più tranquilla: non le piaceva non conoscere la causa di qualcosa, in un irrefrenabile bisogno -quasi ossessione- di conoscenza che l'aveva spinta a divorar libri su libri, nel tentativo di colmare le sue lacune. Si trovò così a dover affrontare la consapevolezza che nulla sapeva su mal di testa improvvisi e passeggeri, cosicché non poté far altro che augurarsi che si trattasse davvero di qualcosa di superficiale.
«Spero non sia nulla di grave» affermò in un debole sussurro, portando dietro l'orecchio una ciocca di capelli che aveva preso a coprirle parte del volto.
«Che tipo di persona era suo padre? E suo fratello? So di stare ponendo delle domande abbastanza sensibili, quindi se non vuole parlarmene lo capisco...».
«Che tipo di persona era... mio padre?» ripeté inebetita, come per accertarsi di aver ben compreso la domanda.
Che tipo di persona era suo padre?
Era la prima volta che si trovava a dover parlare direttamente di suo padre, scoprendosi totalmente incapace nel descriverlo. Il ricordo del suo cadavere in quel decoroso sonno eterno era ancora vivo in Kiria, sicché anche nel momento prima della sepoltura pareva aver impressa sul volto quell'espressione di delusione verso di lei.
Era stato un uomo violento, ma solo nei momenti in cui Kiria meritava un uomo violento. Quando faceva domande di sorta, quando faceva piccoli rumori mentre vi erano ospiti, quando il pasto non corrispondeva alle aspettative. Doveva esser stata davvero una bambina cattiva, e ancora ricordava il disprezzo impresso in quegli occhi neri quando lei osò chiedere di sua madre.
Rabbrividì vistosamente, forzandosi di ricordare suo padre anche in altri momenti.
Ed eccolo venir fuori dalla nebbia dei ricordi d'infanzia un uomo pacato e taciturno, che si limitava semplicemente ad ignorarla, come se lei non esistesse.
«Violento quando esistevo e pacato quando ero un fantasma ai suoi occhi...» si trovò quasi a sussurrare atona con lo sguardo perso nel vuoto: lo stava ammettendo a se stessa, prima ancora di risponder alla domanda di Rutja.
Ed era esattamente ciò che lei rappresentava per quell'uomo: il fantasma di una donna il cui volto era fin troppo somigliante a quello di sua figlia, il fantasma di un amore mai provato, il fantasma di un uomo vanaglorioso ora costretto a nascondersi da se stesso.
Si chiese poi se fosse corretto parlare di un morto in quel modo, dando di lui un'immagine forse ingiusta: era la descrizione di una ragazzina quella, e forse si rispondeva in modo più oggettivo ad una simile domanda. E qui si riproponeva la medesima domanda: che tipo di persona era suo padre?
«Era un uomo forte e deciso, dopotutto» aggiunse, forzandosi in un tono gentile che risultò palesemente falso. Avvertì quelle parole come proferite da un'altra bocca, così lontane dal suo reale pensiero, e si sentì in dovere di cambiare argomento, nell'illusione che quella frase potesse come eclissarsi perché poteva esser vista quasi come una bugia -non volontaria o costruita, ma pur sempre una bugia.
«Io... non lo odio. Non l'ho mai odiato» confessò, tenendo lo sguardo basso, quasi stesse ammettendo un imperdonabile peccato. Ora che l'aveva detto a qualcuno, si sentiva meglio, quasi più leggera: poteva rispondere anche all'altra domanda.
«Per quanto riguarda mio fratello Deichi, è una persona fantastica: ha fatto davvero tanto per me. Rispetto a mio padre è molto più permissivo: mi permette di uscire di casa, di allenarmi e di esporre i miei pensieri, anche se alcuni comportamenti lo rendono eccessivamente protettivo. A volte tende ad esser un po' brusco e taciturno, ma lavora davvero tanto...» la sua voce si rivestì di nuova gioia nel parlare del fratello, come se la malinconia nata dal ricordo del padre fosse svanita di fronte ad un presente ben più lieto.
Quelle domande, inoltre, animarono la sua curiosità verso il fratello defunto di Rutja; adesso si sentiva meno indiscreta nel porle, quasi come se l'avesse in qualche modo autorizzata a chiedere.
«Suo fratello, invece, che tipo era?».. -
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