In lacte veritas

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    CITAZIONE
    Contendenti: Rutja Saijin vs Kiria Yami Uchiha
    Luogo: Locanda chiamata "L'oca assassina", a pochi chilometri da Taki. È preferibile combattere al di fuori di essa, su una piccola radura sul retro del locale.
    Orario: Primo pomeriggio.
    Meteo: Sereno e temperatura media.
    Numero di post: Non limitato.
    Turni: Il primo che posta decide.
    Regole speciali: Nessuna.
     
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    Sola, fissando il liquido bianco contenuto in un bicchiere di vetro, si perse nei suoi pensieri.

    Si preannunciava una splendida giornata.
    Deichi aveva preso -non senza fatica- un giorno libero da dedicare interamente a sua sorella minore, che gironzolava gongolando seguendo i passi del fratello.
    Sicché Kiria desiderasse ardentemente visitare "ogni posto del mondo", Deichi aveva acconsentito alla richiesta a tratti petulante incentrata sul trascorrere un paio di giorni lontano da Konoha, in qualche paese vicino.
    Tutto, di conseguenza, appariva perfetto innanzi agli occhi dorati della giovane Uchiha: una gita- la prima gita!- con l'amato fratello in un posto a lei sconosciuto, lontano dai parenti, lontano dalle missioni, lontano dalla freddezza che di tanto in tanto provava ad affermarsi nel loro rapporto. Era effettivamente un'occasione di rinascita, e si meravigliava di se stessa per la matura considerazione che dava a quella che ad altri bambini sarebbe apparsa come una mera scampagnata familiare.
    Aveva addirittura preparato dei sostanziosi cestini da pranzo, nel caso in cui avessero tardato o semplicemente avessero avuto fame durante un cammino che Kiria immaginava gioioso e pieno di racconti fantastici del fratello inerenti alle sue missioni.
    Ogni avvenimento sembrava la perfetta realizzazione dei suoi desideri più minuziosi: così, la volta turchese del cielo era priva di nuvole, lasciando che un sole delicato illuminasse il cammino che li avrebbe condotti fino al Paese della Cascata, affondando i suoi raggi fino alle profondità di limpidi ruscelli, che di tanto in tanto apparivano attraverso il manto di alberi.
    Quando oramai correvano pochi chilometri a dividere i due da Taki, mentre Kiria era totalmente persa in un racconto del fratello, che enfatizzava i suoi discorsi dando voce ai personaggi che caratterizzarono quella missione di livello S di cui faceva vanto, un anbu dal volto coperto si avvicinò ai due, raggiungendoli a passo svelto.
    Deichi fece un cenno con il capo alla sorella, che cupa in voltò si allontanò, per assistere al muto discorso accompagnato da segni di assenso da parte dell'uomo dal volto coperto, seguiti da vivaci repliche. Il tono era basso, ma Kiria capì subito di cosa si trattasse, così come capì le conseguenze di quella conversazione.
    Quando Deichi si avvicinò, il volto celato da un velo di mortificazione, fece per parlare, ma Kiria fece spallucce e gli diede le spalle, per celare gli occhi che di lì a pochi istanti sarebbero divenuti lucidi.
    «Deve essere importante, quindi va' pure. e porta con te il cestino del pranzo. Mi fermerò a Taki per poco, poi tornerò a casa. Ti aspettano» aggiunse, inamovibile sul lasciar parlare il fratello: non vi erano scuse, né promesse che avrebbero dato sollievo al suo dolore. Più della gita andata in fumo, più del ritrovarsi da sola in un posto nuovo, era la rottura della promessa a ferirla: le considerava rivestite di una sacralità tipica dei bambini, ed ora che proprio suo fratello veniva meno, si sentiva persa, profondamente ferita.

    Sola, lasciò che lo sguardo passasse dal latte all'omone barbuto che gliel'aveva versato.
    Era poco aggraziato, poco educato, poco piacevole alla vista. Era entrata pochi minuti prima in quel luogo che risultò accogliere principalmente viandanti o uomini che, potenzialmente senza un lavoro, dedicassero il pomeriggio a lunghe bevute, nel vano di affogare nell'alcool la tristezza delle loro vuote esistenze; subito quello che potenzialmente doveva essere il proprietario le aveva destinato il suo più deplorevole sguardo, mentre la sua esile figura si arrampicava con grazia sull'alto sgabello posto al centro di sei, che circondavano un lungo bancone posto dal lato opposto all'entrata del locale.
    Il locale, piccolo e circolare, era completamente in legno: il pavimento impolverato, in particolare, era di un legno scuro, e di tanto in tanto qualche piccola macchia si affermava nei lati più remoti dei lunghi tavoli rettangolari, dove pochi andavano a guardare. D'altronde, il posto non pretendeva di affermarsi per la pulizia o per particolari caratteristiche: grazie a prezzi abbordabili e ad una giusta posizione, l'omone barbuto doveva riuscir a tirare avanti senza preoccuparsi troppo dei dettagli, servendo i viandanti con una certa rapidità e offrendo loro un menù alquanto vasto. Il suddetto menù le era stato dato con aria di sufficienza, come se il proprietario risultasse in dovere di avvertire con i gesti oltre che con lo sguardo che la presenza di una bambina ne "L'oca assassina" era poco desiderata. D'altronde, il nome stesso prometteva un locale di un certo tipo, altrimenti l'avrebbe chiamato "Mamma oca" o "L'oca felice". Aveva addirittura affisso una voluminosa bacheca proprio accanto alla cassa, dove si potesse inserire richiesta per cercare sfidanti, in un combattimento pacifico (o meno, all'omone poco interessava) che si sarebbe svolto nella radura alle spalle del locale.
    Anche alcuni degli uomini nel locale le avevano riservato uno sguardo che celava un misto tra curiosità e riserbo, come se si sentissero invasi in un ambiente che li apparteneva intimamente.
    «Vorrei del latte freddo, per cortesia» aveva chiesto Kiria, restituendo con pacatezza il menù all'omone, che quasi si sentì offeso dall'insolita richiesta: del latte a "L'oca assassina".
    I soldi, tuttavia, eran pur sempre soldi, così si era limitato a versarle il liquido bianco in un bicchiere e darglielo, borbottando qualcosa come "fai in fretta" o giù di lì a cui l'Uchiha non diede valore, poiché già persa nei suoi cupi pensieri.

    Sola, lasciò nuovamente che il suo triste sguardo ricadesse sul latte, ancora intatto, dove le speranze per la sua gita perfetta affogavano silenziosamente.
     
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    19.1 CANDIDO INTRUGLIO RINFRANCA IGNOBILI ASSASSINI



    Visto che avevo lavorato sia a Natale che a Capodanno, al villaggio mi avevano concesso ben tre giorni di riposo. Grazie al cielo in quel periodo non avrei dovuto eseguire una di quelle inutilissime missioncine che mi appioppavano regolarmente, però lo avrei dovuto passare in allenamenti, come sempre facevo in questi casi. Mi sentivo particolarmente spossato da quella vita sempre uguale a se stessa. Per questo la sera prima dell'inizio della vacanza, chiesi al Professore, grazie alla tecnica della Riunione di Condominio, di poter avere almeno una giornata libera. Il mio padrone, dopo un attimo di riflessione, mi concesse questo privilegio, dicendo che un po' di riposo mi poteva fare solo bene, purché riprendessi subito dopo ad allenarmi a dovere. E proprio perché non avevo nessun impegno, la mattina seguente mi svegliai con tutta la calma del mondo. Alle undici ero ancora a poltrire sotto le coperte, come non mi capitava da molto ormai. Forse dai tempi del carcere, pensai. Prima ancora di alzarmi, attivai il Matrimonio dell'Horna, evocando l'anima del mio precedente padrone.

    Cosa vuoi fare oggi, Boris?

    L'ex gangster rispose che erano ben poche le cose che si potessero fare con un corpo con il mio, a cui erano precluse alcune delle attività più piacevoli per gli esseri umani. Restavano non molte alternative, ma qualcosa di simpatico da fare si poteva sempre trovare, per una volta che avevo tempo libero.

    B: Potremmo sempre andare all'Oca Assassina...

    Già, l'Oca Assassina. Era un postaccio a poca distanza dal villaggio, una specie di locale dove si riunivano tutti i peggiori sbandati della zona. Ogni tanto ci andavo, anche solo per qualche minuto, giusto per vedere quanto in basso potesse cadere l'umanità e farmi una risata alla faccia di quei reietti.

    Mi piace! Andata!

    Galvanizzato da questa prospettiva, mi catapultai fuori dal letto e mi preparai in fretta. Uscii di casa e percorsi in fretta la distanza che mi separava dall'obiettivo, arrivando in tempo per il momento di pranzo.
    Oltrepassai senza remore la porta. La grande sala era come al solito invasa da ubriaconi depressi. Un paio di loro stavano scazzottandosi goffamente, qua e là c'era qualche corpo riverso a terra, mentre per il resto gli avventori erano chini sui loro tavoli. Avanzai tranquillo verso il bancone, dove mi aspettava il marito della padrona, la donna che dava il nome al locale. L'uomo, burbero e barbuto, era conosciuto da tutti come il Lama, per la sua tendenza a “condire” i piatti e le bevande che serviva con la sua saliva. Solo poche categorie si salvavano, tra tutte quella dei ninja, verso cui l'omone provava timore.

    Il solito...

    Dopo avere ordinato da mangiare e bere, andai a piazzarmi nel posto in cui mi sistemavo sempre. Un tavolo lontano dagli altri, in un angolo poco illuminato a poca distanza dal bagno delle donne, luogo inutilizzato e che non veniva visitato da decenni. Quello era il “tavolo dei disadattati”, ovvero il posto dove si andavano a sedere le persone che non volevano compagnia o, più spesso, che semplicemente non volevano mischiarsi alla feccia che componeva la clientela abituale del luogo. In alcuni casi erano proprio gli avventori di vecchia data a richiedere che certe persone fossero “messe da parte” dal loro luogo di divertimento. Era stato quello il mio caso, la prima volta che ero venuto, poi mi ero auto-esiliato volentieri in quella posizione. Da lì si godeva di una visuale migliore su tutto il locale e soprattutto sulla deprimente e divertente – a seconda dei casi, ma spesso tutte e due le cose insieme – fauna che lo popolava.
    Dopo poca attesa, il Lama mi portò una grossa ciotola di riso ai gamberi e un bicchiere pieno di latte caldo. Trangugiai il primo in poco tempo, vista la fame che avevo. Faceva schifo, come al solito, però era pur sempre cibo. Invece il latte lo razionai, visto che era l'accompagnamento perfetto per potermi dare al drunk-watching, come piaceva a me. Il tepore del candido liquido mi ricordava che ero un essere umano, vivo e vegeto, mentre la vista di quei relitti umani mi assicurava che alla fin fine ero messo pure bene, rispetto ad altri. Avevo i miei problemi, le mie noie quotidiane, ma erano nulla in confronto all'inutilità e ai complessi di quei decerebrati alcolizzati. Immaginavo invece che i pensieri di Boris al riguardo di quella visione fossero diversi, lui si divertiva un mondo a vedere la feccia affogare nel fango senza possibilità di salvezza. L'aveva fatto tutta la vita, con la sua attività criminale, e adesso quella era la cosa più simile a ciò che faceva un tempo. Osservava e si lanciava in commenti maligni e sarcastici sui poveri disgraziati su cui posavamo gli occhi. Probabilmente era il suo modo per sfogare l'invidia che provava verso i vivi.

    B: Rissa a ore dodici!

    Bevvi un poderoso sorso di latte, mentre osservavo due ubriaconi che iniziavano a lanciarsi addosso epiteti pesanti, cosa che preannunciava il passaggio alle maniere forti nel giro di poco tempo. E così infatti fu, solo che uno dei due era molto più debilitato e cadde al suolo al primo colpo maldestro che fu lanciato. Uno spettacolo pietoso. Il Lama arrivò subito a separare i contendenti, ordinando all'uomo ancora in piedi di andarsene subito dal locale. Un po' recalcitrante, questi obbedì, una volta intuito che il gigantesco oste non scherzava. A questo punto il Lama si caricò in spalla il tizio svenuto e lo portò nel bagno degli uomini, dove lo svegliò a forza. Dopo pochi minuti entrambi uscirono e il malcapitato fu cacciato dal locale tra mille vituperi. Questo fu l'evento più divertente che accadde nella mia prima ora di permanenza nel locale. Abbastanza da poter dire che era valsa la pena di essere venuto fino a lì. Passò solo un'altra ventina di minuti e qualcosa di ancor più succoso comparve. Dalla porta entrò infatti una ragazzina, sola e con un coprifronte di Konoha in bella vista. Una bambina. Una bambina che era anche una kunoichi. Una bambina che era anche kunoichi e oltretutto era persino straniera.

    B: Credo che sia la combo migliore che potesse capitarci in assoluto. Osserviamo...

    Boris aveva ragione, sarebbe stato quasi impossibile superare quella situazione. Tre aspetti che gli avventori abituali del locale odiavano, tutti e tre riuniti in una sola persona. Sarebbe stato esilarante osservare le loro reazioni, immaginavo. E infatti, appena lei mise piede nel locale, molti iniziarono a vociferare e bisbigliare tra di loro. Non la volevano, ma avevano troppa paura per dire o fare qualcosa. Le loro facce erano impagabili. Quando odio, terrore e auto-disprezzo si univano in un unico sentimento, i volti degli uomini si trasfiguravano e divenivano un ricettacolo di espressioni paradossali. La ragazzina sembrò non dare troppo peso alla cosa, o forse non se ne accorse. Proseguì tranquilla, scalando uno degli sgabelli che davano sul bancone. Quella era una cosa che quasi nessuno faceva, anche perché erano ben pochi quelli che volevano avere a che fare con il Lama per più di un nanosecondo. E anche lui non voleva avere niente da spartire con la nuova arrivata e cercò di farlo capire anche a lei con uno sguardo più che esplicito. Lei non disse nulla e si limitò a leggere con calma il menu. Dimostrava se non altro un sangue freddo davvero invidiabile. Dopo aver riflettuto un po', ordinò un bicchiere di latte freddo. Curiosa come scelta, però alla fine quasi ovvia, vista la sua età. Con un sorso profondo, bevvi ciò che restava della mia bevanda, dopo di che mi alzai, per portare il contenitore vuoto all'oste e farmelo riempire di nuovo. Nel mentre egli servì la nuova arrivata, che si chinò assorta con lo sguardo perso sul bancone. L'omone le chiese, poco gentilmente, di fare in fretta, ma lei non reagì.

    Un altro di latte caldo!

    Il Lama rimase a osservarmi per qualche secondo, forse nella speranza che rinunciassi all'idea. Ben due shinobi nel suo locale non erano per niente ben visti e immaginavo che preferisse che me ne andassi in fretta anch'io. Quando capì che non lo avrei fatto, si mise all'opera per preparare la mia bevanda. Poco tempo dopo un bicchiere fumante si trovava di fronte a me, ma prima che potessi prenderlo e andarmene l'uomo si rivolse a me ad alta voce.

    L: Hey, linguasecca, perché non porti questa signorina con te al “tavolo dei disadattati”? Immagino che voi ninja abbiate un sacco di cosa da dirvi, no?

    L'uomo ridacchiò sgraziatamente. Non sapevo se perché ci fosse una qualche ironia nascosta nelle sue parole o perché allettato dall'idea di “confinare” le due anomalie in un angolo e limitare il loro impatto sull'ambiente del locale. Non ero sicuro di cosa pensare a riguardo. Mi dispiaceva fare un favore al Lama, però forse gli avrei dato un dispiacere maggiore trattenendo quella ragazzina con me per più tempo di quanto lei avesse intenzione. Soppesai velocemente queste due possibilità, senza arrivare da nessuna parte, visto che non ero convinto né della prima né della seconda opzione. Su suggerimento di Boris, decisi dunque di delegare la scelta proprio alla konohana.

    Vuole unirsi a me?


    Legenda
    B: Boris Saijin
    L: Il Lama


    OT
    Visto che nello scontro con Luke mi ero divertito con gli acronimi, qui lo faccio di nuovo xD. Le iniziali del titolo formano il nome della mia avversaria, con l'opportuna sostituzione della K con la C :asd: .
     
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    Ora che i pensieri erano divorati meno voraci degli altri sensi e la testa un luogo meno caotico, poteva sentire più dettagliatamente i commenti che la sua presenza in quel posto suscitava. Era tuttavia cosa che non la infastidiva, nonostante di quei brusii volgari di sottofondo capiva ben poche delle parolacce che li colorivano.
    E come poteva lei, con la sua rigida educazione, conoscere anche solo la metà dei termini utilizzati da quegli uomini che puzzavano di alcool e sudore e vita sprecata?
    Tirò giù un sorso del suo latte, constatando che non era per nulla buono come quello che le veniva comprato da Deichi, e tuttavia ebbe abbastanza clemenza nell'uomo da non fargli un elaborato discorso sull'importanza della qualità degli ingredienti nell'arte culinaria, capendo che la maggior parte dei presenti dava ben poca importanza al cibo.
    «Un altro di latte caldo!».
    Si voltò verso destra, incuriosita dallo scoprire chi altri in quel posto potesse chiedere del latte caldo da bere, preferendolo ad una di quelle voluminose pinte che traboccavano schiuma sul pavimento, andando a generare nuove macchie destinate a giacere lì per tempo indeterminato.
    Quando vide la fonte di quella voce maschile fu... sorpresa. Non sapeva esistessero persone dotate di molteplici paia di braccia nel mondo, e fu fortemente incuriosita da quella figura: era nata così? Lo era diventato a seguito di esperimenti?
    Inoltre aveva dei capelli davvero buffi (che generarono nella bambina la voglia di sprofondarvi le mani all'interno per qualche istante, al solo fine di scoprire come sarebbero risultati al tatto) e una carnagione che ben si distingueva da quella dei presenti -che fosse straniero anche lui?
    Mentre la mente della bambina compiva nuovi viaggi verso storie che vedevano lo strano uomo come protagonista, il maleducato e rozzo proprietario propose a "Linguasecca" di scortare la bambina fino al "tavolo dei disadattati" perché i ninja hanno "un sacco di cose" da dirsi.
    Le stava forse dando della disadattata?
    Provò un nuovo senso di repulsione verso l'omone e la sua fastidiosa risata, accompagnato dal desiderio di fare qualcosa -che fosse rispondergli o fargli del male, ancora non riusciva a decifrare bene in cosa la sua rabbia volesse convertirsi.
    Decise tuttavia di seguire i dettami frutto dell'educazione che le era stata pazientemente inculcata, i quali prevedevano non si perdesse tempo con esseri inferiori. E l'omone, senza false modestie, era stato etichettato sin da subito come essere inferiore.
    «Vuole unirsi a me?».
    Fu immensamente sorpresa di scoprire il ragazzo così cortese, oramai abituata al rozzo modo di comunicare dei presenti, per cui gli sorrise con una certa spontaneità, afferrando con entrambe le manine il lungo bicchiere di vetro contenente ancora metà latte -le piaceva bere piano, in modo da gustare al meglio il liquido, sebbene in quel caso ci fosse poco che potesse deliziarla- per poi scendere con grazia dall'alto sgabello.
    «Mi farebbe piacere» asserì, sebbene fino a qualche istante fa era ben ferma sull'idea di abbandonare quel postaccio nel più breve lasso di tempo possibile. Ricordava benissimo gli insegnamenti sul "non fidarsi degli sconosciuti" e sulle "cose brutte che accadono alle ragazzine quando sono sole con un estraneo", ma era immensamente incuriosita dalla figura che l'aveva invitata a farle compagnia per declinare l'invito. Inoltre, avrebbe ben volentieri perfino passato la notte in quel postaccio, se questo fosse servito ad infastidire a dovere il proprietario, ormai nemico della bambina.
    Dopo un'ultima occhiata di disprezzo destinata all'uomo, che ora se ne stava tutto soddisfatto a sghignazzare per il risultato ottenuto, pulendosi quel paio di mani enormi su quella che era stata una bianca canottiera, ora imbrattata da sudore e svariate macchie, Kiria guardò con più attenzione il locale, notando che il "tavolo dei disadattati" citato doveva essere l'unico libero, posto lontano da tutte le piccole finestre in modo da essere totalmente in ombra, accanto al bagno delle signore, la cui maniglia della porta era coperta da uno strato così spesso di polvere da provare la rarità di un essere di sesso femminile che varcasse la soglia di quel posto.
    Cominciò a camminare tra lo stretto corridoio di tavoli, guardando dubbiosa uomini che parlavano di mogli che si rifiutavano di avere rapporti, consigliati da altri uomini verso donne a pagamento, uomini che si impegnavano con voluminose braccia in un braccio di ferro che sembrava togliergli ogni energia, e uomini che ridevano apparentemente senza motivo di fronte a fila di boccali vuoti.
    «Mi chiamo Kiria Yami. Lei come si chiama?» avrebbe chiesto una volta giunti a quel tavolo di legno, piccolo a tal punto da poter accogliere al massimo due persone, sul quale altri prima di loro avevano inciso -forse con coltellini, forse con forchette- frasi a cui la bambina avrebbe dato poco peso. Sperava vivamente di trovarsi al cospetto di una persona logorroica, che avrebbe preso a narrare della sua storia e del perché del suo aspetto, che tanto incuriosivano la bambina.
    Per quanto concerne l'omissione del cognome, questa fu una scelta ponderata, che poco era legata all'effettivo desiderio di nascondere chi fosse: semplicemente, non voleva che si creassero aspettative di sorta, o pensieri di sorta, o pregiudizi di sorta basati sul semplice fatto di presentarsi come un'Uchiha.
     
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    19.2 IN ALTRI MOMENTI INSULTEREI



    La ragazzina mi aveva gettato sin da subito sguardi incuriositi, all'inizio diretti soprattutto ai miei capelli. Questi terminarono al momento della proposta del Lama, che a quanto pareva le aveva procurato non poco fastidio. Lasciai quindi la scelta alla konohana, se seguire o meno il "consiglio" dell'oste.

    K: Mi farebbe piacere

    Presa la decisione, la ragazzina scese dal suo sgabello. Ne fui decisamente sorpreso, ma cercai di non palesarlo troppo. Vidi il Lama esultante strusciarsi le mani e mentalmente lo feci anch'io, all'idea di prolungare a lungo l'invasione non solo mia, ma anche della giovanissima e per lui fastidiosa konohana. Le feci strada e in poco tempo raggiungemmo il luogo a noi destinato. Intorno a noi gli avventori stavano pian piano ritornando alle loro attività solite, bevute, bracci di ferro, schiamazzi. Uno di loro vomitò per terra, purtroppo lontano dallo sguardo della ragazzina. Peccato, mi avrebbe incuriosito osservare la sua reazione.

    K: Mi chiamo Kiria Yami. Lei come si chiama?

    Una volta preso posto al tavolo, lei aveva passato uno sguardo veloce sui soavi poemi incisi in quel nobile pezzo di legno, che erano stati specchio e sfogo degli oscuri desideri e delle pulsioni nascoste di così tanti "disadattati". Probabilmente non aveva compreso a fondo l'alto valore morale di quel cumulo di turpiloqui e bestemmie, perché aveva sorvolato su tale visione senza soffermarcisi, ma passando subito alle presentazioni.

    Rutja Saijin, genin di Taki.

    I giallissimi occhi della giovane Konohana tradivano tutta la sua curiosità. In effetti non era una cosa così rara. Certo, erano molte di più le persone che provavano da subito nei miei confronti disgusto o disprezzo, ma ce n'erano anche alcune che invece mi si approcciavano con curiosità. Proprio queste ultime erano quelle che solitamente respingevo in maniera più netta, forse perché non sapevo bene come comportarmi con loro. Non ero abituato ad attrarre attenzione "positiva", quindi preferivo che la gente mi odiasse, mi ci trovavo quasi più a mio agio. Però questa volta era diverso. Quella ragazzina era stata in grado di aumentare il malumore dei presenti ancor più di me, non potevo che sentirmi almeno in parte in sintonia con ella. Quindi decisi che avrei risposto anche a sue eventuali domande, sempre stando attento a non dire nulla di neanche vagamente compromettente sul mio Padrone. Bevvi un sorso di latte con calma, poi mi rivolsi a lei mantenendo il mio solito sorriso idiota sul volto.

    Lei è curiosa, signorina, non è vero? Mi chieda pure quello che desidera...



    Legenda
    K: Kiria Yami


    OT
    Sempre acronimo nel titolo, stavolta con il cognome (e con "i" al posto di "y") :asd: . Dubito di riuscire a farlo con “Uchiha” (l'unico che mi viene in mente è “Uno Che Ha Infiniti Harem Apprezza”, ma non centra molto con la ruolata :asd: ) nel prossimo turno, quindi dovrò inventarmi qualcos'altro xD. Magari riprovo con l'inglese, altrimenti potrei anche smetterla di ammorbarvi con acronimi inutili xD.
     
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    Io adoro i tuoi titoli :mki:


    Un timido raggio di sole si fece strada fino ad illuminare la spalla destra del ragazzone e l'occhio sinistro della bambina, il cui dorato pareva quasi risplendere in quelle particolari condizioni. Magari, altre persone sarebbero perfino state entusiaste di una simile peculiarità, ma per Kiria quella era una mera condanna. Chinò il capo, contemplando per alcuni istanti il contenuto bianco del suo bicchiere, nuovamente all'ombra quasi rassicurante destinata a coloro i quali sedevano in quel tavolo.
    Rifletté poi sul nome del ragazzo, quasi a contemplarne la vistosa differenza con il suo: tutto nel mondo era così diverso da come lo aveva immaginato durante gli anni chiusa in casa, a partire dai nomi delle persone, a partire dal rozzo modo di vivere di esseri di cui neppure contemplava l'esistenza. A questo proposito, un tanfo di vomito andò a mischiarsi con gli altri sgradevoli odori del posto, facendo arricciare per alcuni istanti il naso di Kiria: era tutto così sgraziato e indecente in quel posto, tutto tranne colui che a prima vista altri avrebbero reputato come l'essere più sgraziato e indecente.
    Notò anche con un po' di stupore che, nel presentarsi, Rutjia aveva fatto riferimento al proprio grado e villaggio di appartenenza, e si chiese se non fosse consuetudine e buona educazione procedere in quel modo nel momento in cui si parlava con uno straniero.
    Ci avrebbe sicuramente riflettuto su.
    «Lei è curiosa, signorina, non è vero? Mi chieda pure quello che desidera...».
    Le piaceva il tono formale di Rutjia, poiché la faceva sentire a casa, quasi a suo agio. Le piaceva anche il suo sorriso, ma probabilmente perché privo della malizia che attanagliava ogni piccola molecola di quel posto.
    Gli occhi della bambina tornarono a fissare con una curiosità vispa e quasi invadente Rutja, mentre un sincero sorriso prese vita sul suo volto. Era effettivamente entusiasta, come suo solito, della possibilità di poter esplodere in tante domande senza porsi freni, e tuttavia dovette attendere qualche secondo prima di parlare: si ricordò di Walter, e della sua reazione improvvisa alle sue parole apparentemente così innocue. E Walter era buono.
    Avrebbe ad ogni modo dovuto far qualcosa, prima o poi, per quel lato del suo carattere così palesemente entusiasta e curioso di fronte a nuove persone e alle loro storie: prima o poi avrebbe potuto cacciarsi in un brutto guaio.
    "Se mi ha dato esplicito permesso di fare domande, sicuramente non sarà poi tanto permaloso" constatò meditabonda, cercando di addentrarsi invano in una sorta di descrizione psicologica del suo interlocutore in base alle poche parole che si erano scambiati.
    Non era -non ancora almeno- così brava nel capire le persone, e nonostante ciò non si diceva neppure capace di lasciar sospese le domande ormai nate in lei. Optò dunque per qualcosa di generico, in modo da dare al ragazzo la possibilità di toccare da solo i tratti salienti della sua vita, evitando ciò che ritenesse opportuno una bambinetta di Konoha non sapesse.
    «Come mai lei è... così? Ha forse ereditato il suo aspetto da sua madre o suo padre?».
    All'ultima parola non fu destinato un tono diverso dal resto della frase, bensì seguì un lieve cenno con il capo, come a sottolineare il suo puerile tentativo di non esser offensiva o indelicata in alcun modo.
    Avrebbe ascoltato in silenzio le spiegazioni di Rutjia, dondolando di tanto in tanto le gambe e sorseggiando pian piano il freddo latte restante.
     
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    19.3 IL LATO OSCURO DELLA DEBOLEZZA



    Mentre la ragazzina rimaneva pensierosa, un lampo improvviso di luce le illuminò gli occhi. Erano chiarissimi e puri, di un dorato quasi abbagliante. Durò solo un istante, poi il buio tornò a regnare incontrastato sul “tavolo dei disadattati”. La visione delle gialle pupille della konohana, pur essendo stata fugace, mi aveva colpito non poco. Erano come la rappresentazione fisica di ciò che avevo notato in lei sopra a tutto il resto. L'innocenza. Un'innocenza sbandierata, sbattuta in faccia agli altri. Forse era anche per quello che la sua presenza aveva sconvolto così tanto i presenti, che questa caratteristica l'avevano persa ormai per sempre. Come me, del resto.

    B: Ti stai facendo troppi viaggi, idiota... Io ho letto tutt'altro in quegli occhi!

    Ignorai ciò che aveva da dire l'ex gangster, pur se cosciente che fosse possibile che avesse ragione lui. Non mi interessava, in quel momento importava soltanto portare a compimento l'impresa in cui mi ero imbarcato. Qualcosa di inedito per me, ma che speravo mi potesse fare bene.
    Nel mentre la ragazzina stava cercando di superare imbarazzo e insicurezza, per esporre infine la sua curiosità.

    K: Come mai lei è... così? Ha forse ereditato il suo aspetto da sua madre o suo padre?

    Come prevedibile, le domande della giovane pulzella si concentrarono sul mio aspetto fisico. Fu però buffo il modo in cui la domanda fu posta, anche se l'idea della ragazza non era neanche troppo assurda. Di sicuro meno di quella che invece era la realtà.
    Radunai le idee per qualche secondo. Era la prima volta che raccontavo a qualcuno la mia storia. O quanto meno a qualcuno di vivo. Tutti quelli dentro di me avevano già sentito le mie vicissitudini, ma lo avevano fatto direttamente dai miei pensieri, quindi non avevo dovuto sforzarmi di formulare un discorso. Innanzitutto cercai di capire cosa era da raccontare e cosa invece da tralasciare. Decisi di far partire il tutto dal momento in cui ero arrivato a Taki, per non allungare il brodo più del dovuto.

    B: Non capisco proprio perché tu voglia fare una stronzata del genere... Speri forse di ottenere un qualche perdono?!

    L'ultima frase del vecchio gangster mi lasciò per un attimo di sasso, ritardando la partenza. Forse era così, forse era quello ciò che cercavo. In fondo in un futuro prossimo avrei potuto dovermi macchiare di crimini immondi e lo avrei fatto senza remore. Forse mi avrebbe fatto bene sapere di non essere stato sempre sbagliato. O forse mi avrebbe fatto ancora meglio scoprire che invece era proprio così. Volevo saperlo, assolutamente, sapere se c'era stato un tempo in cui anch'io ero stato umano. E di fronte a me avevo “l'innocenza”, quindi era un'occasione irripetibile.

    B: Sei solo un povero pazzo con manie di persecuzione e un cervello ammuffito... Fai pure come vuoi, ma poi non venire a piangnucolare da me...

    La storia è un po' lunga... Magari le risparmio un po' di antefatto...

    Dopo aver riflettuto per così tanto tempo, esordii in maniera rapida e diretta. Non ero in grado di reggere discorsi troppo lunghi, quindi dovevo andare dritto al punto. Ed essere un po' sintetico, altrimenti il racconto avrebbe iniziato a fare acqua da tutte le parti.

    A dieci anni mi sono ritrovato a dover cercare da mangiare da solo per me e il mio fratellino in una città sconosciuta. Ma siccome nessuno voleva darmi da lavorare, pur di avere qualcosa da mettere sotto i denti iniziai a rubare. Dopo che mio fratello morì...

    B: Ahahahahah, “dopo che mio fratello morì”?! Ridicolo! Cerchi perdono, ma non sei in grado di dire due parole senza mentire? Tuo fratello non è morto, l'hai ucciso TU!!

    Fui interrotto dalle parole di Boris “The Blade”, così dannatamente taglienti come ci si poteva aspettare dal suo soprannome. Era vero, io avevo ucciso il mio povero fratellino, ma lo avevo fatto perché lui sarebbe comunque morto di lì a poco, in maniera più lunga e dolorosa. Lo avevo fatto per me, certo, però lo avevo fatto anche per lui. Perché lo amavo. Perché era stata l'ultima persona che fui in grado di amare davvero.

    B: Sarà pure così, però resta la contraddizione. Se vuoi ottenere un vero perdono del cazzo non puoi mentire, altrimenti il perdono stesso non varrà assolutamente niente. Sarebbe solo un'inutile perdita di tempo...

    Non importa! Spiegare tutto sarebbe troppo complesso! E adesso lasciami continuare e non toccare mai più l'argomento! Tanto non riuscirai a colpevolizzarmi più di quanto faccia già io da solo, per questa vicenda...

    Dopo che mio fratello morì, mi fu offerto di entrare in un'organizzazione criminale, per fare il tuttofare schiavo. Dopo poco ci catturarono quasi tutti e io fui torturato e imprigionato.

    Diedi particolare enfasi alla parola “quasi”, come se fosse una frecciatina al coinquilino del mio cervello. Lui rispose ridendosela di gusto, come prevedibile. Lui, il capo di quell'organizzazione, era riuscito a fuggire e a fondare altre organizzazioni più volte, facendo affondare e morire centinaia di banditucoli e disgraziati in questo. Il tradimento era la sua arte e la sua gioia, non poteva che essere fiero delle sue azioni.

    Vista l'età, me la cavai con una condanna corta, ma una volta fuori nessuno volle avere niente a che fare con me. Quindi, per non patire di nuovo la fame, iniziai a commettere reati stupidamente evidenti al solo scopo di farmi mettere di nuovo dentro, dove almeno mi davano da mangiare...

    Per un attimo ripensai alle schifezze che ci propinavano come cibo in cella, agli insulti e alle botte che i secondini mi concedevano in abbondanza. Era stato uno dei periodi più “divertenti” della mia vita, quei soldatucoli falliti erano esilaranti, anche se non ci andavano giù per il sottile. Deriderli mi allietava le giornate, anche se mi costava sempre caro. Ridacchiai brevemente, poi bevvi un sorso di latte, prima di continuare.

    Beh, alla quarta volta si sono scocciati e mi hanno condannato a morte. A quel punto è intervenuto uno scienziato pazzo e mi ha offerto di sottopormi ai suoi esperimenti in cambio di una mezza grazia. E così è stato...

    Sorseggiai ancora un po' di latte, cercando una degna conclusione. Ero curioso e terrorizzato dall'idea di sentire cosa pensava la ragazzina di quell'ammasso di eventi insensati.

    Questo è quanto... Alla fin fine sono passato da fare lo schiavo di un gruppo di mafiosi a diventare di nuovo uno schiavetto dell'esercito più scarso al mondo... Ironico, non trova anche lei?



    Legenda
    K: Kiria Yami
    B: Boris Saijin


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    Sospendo gli acronimi per mettere un gioco di parole/citazione :asd: . Hope you enjoy :asd: .
     
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    L'iniziale silenzio che derivò dalla sua domanda portò Kiria a chiedersi se effettivamente una simile frase non potesse risultare offensiva o indelicata. Non le andava, al contempo, di aggiungere inutili parole per far sembrare quanto detto meno delicato, perché non reputava ce ne fosse bisogno: ai suoi occhi, Rutja non era sbagliato, era solo diverso, e non trovava nulla di sbagliato nella diversità.
    Così, rimase in silenzio ad ascoltare pazientemente, lasciandogli il tempo di formulare la risposta come più ritenesse opportuno, riflettendo se quel silenzio era indice di una storia tortuosa o di un'elaborata menzogna.
    «A dieci anni mi sono ritrovato a dover cercare da mangiare da solo per me e il mio fratellino in una città sconosciuta. Ma siccome nessuno voleva darmi da lavorare, pur di avere qualcosa da mettere sotto i denti iniziai a rubare. Dopo che mio fratello morì...»
    Il silenzio che seguì fu riempito da uno sguardo traboccante di dispiacere di Kiria, i cui occhi sgranarono e per poco non si inumidirono di lacrime, in una sorta di profonda empatia verso Rutja: immaginò il lacerante dolore della perdita di un fratello, immaginando per pochi, struggenti istanti la propria vita senza Deichi, e quasi si sentì male nell'apprendere del dolore che aveva segnato la vita del genin di Taki. Se fosse cresciuta con abitudini diverse, più aperte e meno rigide, probabilmente l'avrebbe abbracciato, piccina piccina in una figura così grande, piangendo ininterrottamente.
    Non specificò il suo stato emotivo fortemente provato, né espresse il proprio dispiacere: a cosa serve la commiserazione di un estraneo quando nulla può riempire il vuoto che lasciano coloro i quali amiamo nel momento in cui ci abbandonano per sempre?
    Ascoltò il resto del discorso in silenzio, senza riuscire a nascondere il dolore provato nell'apprendere della morte del fratello, riflettendo sulla relatività della storia raccontatale: ora, Rutja appariva come un povero disgraziato che si era concesso a cose deplorevoli per la mera sopravvivenza, manifestando una tenacia e un attaccamento alla vita davvero ammirevole. Se questa storia, la stessa storia, fosse giunta a lei tramite terzi, Rutja sarebbe stato descritto come un indisciplinato essere privo del buon senso, perché nessuno ascolta mai coloro i quali gridano aiuto in silenzio, nessuno guarda oltre la fallacia delle apparenze.
    Prima di rispondere toccò a lei riordinare le informazioni ricevute, nell'istintivo tentativo poi di immedesimarsi in una storia così ricca di eventi e al contempo radicalmente diversa dalla sua esperienza di vita: lei sarebbe sicuramente morta con il fratello, e ad ogni modo mai avrebbe avuto la forza di aggrapparsi alla vita con così tanto ardore, tale da sopportare umiliazioni, sofferenze, rimorsi al solo scopo di continuare a sopravvivere.
    Poi capì: Rutja viveva per entrambi.
    Nella sua vita, nel suo disperato tentativo di continuare a vivere, c'era anche il fratello, incentivandolo ad una sopportazione ammirevole, e lei -come sorella minore- non poteva far altro che apprezzare questo gesto: semmai fosse morta, Deichi avrebbe dovuto fare lo stesso.
    Erano proprio tipi interessanti, quelli diversi.
    «Questo è quanto... Alla fin fine sono passato da fare lo schiavo di un gruppo di mafiosi a diventare di nuovo uno schiavetto dell'esercito più scarso al mondo... Ironico, non trova anche lei?».
    «Lei è troppo severo con se stesso. Sia più ottimista: è passato dal limitarsi a sopravvivere al poter vivere: molti altri si sarebbero arresi al suo posto, piegati innanzi alle continue difficoltà che lei ha affrontato. Ha sopportato davvero tanto, essere uno strumento in mano al signore di turno sembra esser un prezzo sopportabile per la libertà».
    Nonostante la giovane età, Kiria comprendeva appieno cosa volesse dire "diventare lo schiavetto dell'esercito", poiché chiari eran stati gli insegnamenti che il padre aveva suo malgrado lasciato: un ninja è uno strumento applicato ad un contesto, che sia questo una semplice missione o una guerra.
    C'erano delle cose di quella storia che tuttavia meritavano ulteriori specifiche: oltre al modo in cui era morto il fratello, che mai avrebbe chiesto perché lei per prima non avrebbe potuto sopportare il dolore che il solo pensiero le recava, vi erano persone la cui fine non era meglio specificata.
    «I membri dell'organizzazione sopravvissuti o liberi non l'hanno mai cercata? E che fine ha fatto lo scienziato pazzo? Non è utile ai fini scientifici creare qualcosa e poi abbandonarla a se stessa».
    Per Kiria, compito di colui che gli aveva donato quell'aspetto era prendersi cura della propria creazione, che sia per affetto o per interesse, perché nessuno mai dovrebbe esser abbandonato, per nessun motivo.
     
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    19.4 RAGNO UMANOIDE TROVA JOVINE AMICA



    K: Lei è troppo severo con se stesso. Sia più ottimista: è passato dal limitarsi a sopravvivere al poter vivere: molti altri si sarebbero arresi al suo posto, piegati innanzi alle continue difficoltà che lei ha affrontato. Ha sopportato davvero tanto, essere uno strumento in mano al signore di turno sembra esser un prezzo sopportabile per la libertà.

    La ragazzina non aspettò quasi niente per darmi la sua sentenza. Assoluzione, assoluzione completa. Probabilmente non riuscii in quel momento a trattenere la commozione, gli occhi mi sembravano essere diventati umidi o quasi. Questo era quello che pensava una persona davvero innocente. Io non ero sbagliato all'inizio, la mia vita non era stata predeterminata. Ero io ad avere scelto, ad avere imboccato quella strada che era solo mia. Ero davvero libero. Libero di scegliere quello che altri avrebbero considerato il Male, la via errata. Libero di scegliere il mio padrone, il solo che rispettavo e per il quale avrei offerto senza rimorso la vita.

    K: I membri dell'organizzazione sopravvissuti o liberi non l'hanno mai cercata? E che fine ha fatto lo scienziato pazzo? Non è utile ai fini scientifici creare qualcosa e poi abbandonarla a se stessa.

    Rimasi sorpreso di fronte a quell'ultima affermazione, che mi sembrava indicare una maturità fuori dal comune. Che del resto aveva dimostrato già con le parole di prima di avere un'intelligenza particolare, una capacità di capire situazioni e persone che in teoria avrebbero dovuto esserle estranee, vista la giovane età. Ero di fronte ad una persona molto interessante, come non mi capitava di incontrare da molto tempo. Siccome era stata la seconda domanda ad attirare di più la mia attenzione, risposi prima a quella.

    Purtroppo non è più in questo mondo. Era una persona molto "strana", ma provavo molta riconoscenza verso di lui, per quello che aveva fatto per me. Però dovetti ucciderlo. Stava tramando qualcosa contro Taki, il mio villaggio. Lui probabilmente avrebbe voluto che seguissi i suoi ideali, ma ho scelto di non farlo. Uno schiavo non può avere due padroni...

    Diedi particolare enfasi all'ultima frase. Erano forse le parole più belle che avessi mai pronunciato, quelle che meglio rappresentavano la mia vita intera. Certo, le avevo pronunciate a seguito di una menzogna. Non avevo tradito il Professore, lo avevo ucciso con il suo consenso solo per poter impedire che il villaggio mettesse le mani su di lui. Era il solo modo per non perdere tutto ciò che era stato costruito, per non perdere quei vantaggi raggiunti e per non distruggere gli ingranaggi che avevano appena iniziato a muoversi.

    Comunque mi ha lasciato tutte le indicazioni necessarie su come comportarmi con questo corpo. In un certo senso è come se lui fosse ancora con me...

    Dissi queste parole con un tono inquieto. Il fatto che il mio padrone mi stesse ancora guidando, pur essendo morto, non poteva che essere di giubilo per me. Ciò che mi rattristava era l'idea che egli si rendesse conto di quanto fossi inadeguato per perseguire i suoi obiettivi, di quanto fossi solo un inetto. Avevo timore che si pentisse di aver scelto me, di non riuscire a fare altro che deluderlo.
    Scacciai questi pensieri negativi con una profonda sorsata di latte. C'era anche la seconda domanda a cui rispondere, quindi raccolsi in fretta le idee e lo feci.

    Nessuno di quelli dell'organizzazione mi ha mai più cercato. L'unico sopravvissuto libero oltre a me era il boss, che era fuggito in un altro paese. Lì aveva fondato una nuova organizzazione e, per puro caso, ero stato rapito da essa durante un viaggio. Il boss, una volta riconosciuto, mi ha chiesto di unirmi a lui. L'ho fatto, anche se solo per finta. Finché mia moglie ha fatto irruzione nel loro covo e insieme abbiamo distrutto tutta la nuova organizzazione. Mia moglie è riuscita a uccidere il vecchio capo, anche se ciò le è costato la vita...

    Chiusi in questo modo il discorso, con tono palesemente cupo. Non tanto per i sentimenti verso colei che era stata legata a me soltanto per legge. Non ci amavamo, anzi lei mi odiava senza mezzi termini. Erano altre le implicazioni. Appena dopo essere riusciti a recuperare gli appunti del Professore e averlo fatto rivivere con Matrimonio dell'Horna, tutto era subito precipitato di nuovo. Avevo permesso che la pedina più importante del nostro piano fosse persa e, per colpa mia, Maki aveva perduto la cosa che più le era cara, il suo corpo. Ancora non mi perdonavo quell'errore. Anche se quella serie di sfortunati eventi non era stata senza conseguenze positive. Come l'aver riunito le forze con Boris o l'aver conosciuto l'allievo prediletto di mio padre e, tramite lui, l'aver recuperato le sue conoscenze. Rimaneva però il ricordo della desolazione della stanza piena soltanto di cadaveri e la sensazione che non sarebbe dovuta andare in quel modo.
    Per non farmi prendere di nuovo dalla tristezza, buttai giù quello che restava del bicchiere di latte. Poi lanciai un sorriso malinconico verso la ragazzina.

    A quanto pare tutte le persone che amo o rispetto hanno la tendenza a morire terribilmente. Le consiglio di non piacermi troppo, signorina!



    Legenda
    K: Kiria Yami


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    Scusa il ritardo...
     
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    Gli occhi scuri del ragazzo si nascosero dietro un velo umido, in una naturale reazione alle parole di Kiria, che gli sorrise dolcemente, quasi a poter alleviare con quel sorriso i sensi di colpa, quasi a poter allontanare eventuali ricordi nostalgici. Riusciva a guardarlo negli occhi (e già da sé questo era fatto speciale, data la sua incapacità nel reggere lo sguardo delle persone), provando un senso di sorpresa la rapidità con la quale si era abituata all'aspetto di Rutja, l'innata capacità di non trovare nulla di strano in lui. Quelli strani erano quei morti che parlavano e bevevano e ruttavano credendosi vivi, non lui. Non loro.
    «Purtroppo non è più in questo mondo. Era una persona molto "strana", ma provavo molta riconoscenza verso di lui, per quello che aveva fatto per me. Però dovetti ucciderlo. Stava tramando qualcosa contro Taki, il mio villaggio. Lui probabilmente avrebbe voluto che seguissi i suoi ideali, ma ho scelto di non farlo. Uno schiavo non può avere due padroni...».
    Per un piccolo istante Kiria tradì la sua espressione, aggrottando le sopracciglia in segno di perplessità. Taki? Rutja aveva davvero ucciso un uomo verso il quale provava riconoscenza -un uomo che a modo suo lo aveva salvato- per qualcosa di astratto e indefinito come Taki?
    Quella spiegazione minò quello che viene definito come equilibrio cognitivo di Kiria. Aveva forse compiuto un errore di valutazione? Non poteva accettarlo. Una persona con un simile passato, una persona che ha dovuto meritare la vita più di altri non poteva rigettare riconoscenza e gratitudine per qualcosa di lato come un paese, un paese che ha avuto solo sofferenza da offrire.
    "Uno schiavo non può avere due padroni". Pensò a Deichi nelle sue vesti di schiavo della famiglia, assoggettato alle necessità prima della sorella minore, poi del resto del clan. Pensò alle difficoltà, alle sofferenze, alla pesantezza di una situazione destinata a diventare insostenibile, e si ritrovò a concordare con Rutja: uno schiavo non può avere due padroni.
    "Chi è il tuo vero padrone, Rutja?"
    Quel pensiero corse con prepotenza via dalla sua testa, nel tentativo di fuoriuscire da quel corpo e cercare risposta, ma morì soffocato: c'erano cose che non doveva sapere.
    Cercò di nascondere alla meno peggio la certezza che qualcosa non le era stato detto, in un forzoso tentativo di donare ai suoi lineamenti la naturalezza che li aveva caratterizzati fino a quel momento, scoprendosi a destinare al ragazzo un nuovo, contorto sorriso. Un sorriso colpevole, un sorriso che pareva dire "non volevo non crederti".
    Rutja bevve il suo latte e lei fece lo stesso, godendo di quel breve silenzio per ricomporsi, forzandosi a non porre domande a lui né tanto meno a se stessa sul motivo che portava una persona ad omettere qualcosa (o mentire) circa il proprio passato.
    «Nessuno di quelli dell'organizzazione mi ha mai più cercato. L'unico sopravvissuto libero oltre a me era il boss, che era fuggito in un altro paese. Lì aveva fondato una nuova organizzazione e, per puro caso, ero stato rapito da essa durante un viaggio. Il boss, una volta riconosciuto, mi ha chiesto di unirmi a lui. L'ho fatto, anche se solo per finta. Finché mia moglie ha fatto irruzione nel loro covo e insieme abbiamo distrutto tutta la nuova organizzazione. Mia moglie è riuscita a uccidere il vecchio capo, anche se ciò le è costato la vita...».
    Lo sgomento per la perdita di un'altra persona amata uccise definitivamente i dubbi della bambina: suo fratello e sua moglie erano morti. Rimase in silenzio, emettendo solo un lieve gemito che espresse tutto il dolore e lo sconforto dell'Uchiha. Avvertì nuovamente un lieve bruciore agli occhi, intenti in un'umida protesta per le lacrime mai versate, ma non riuscì a far altro che rimanere in silenzio, schiacciata da quelle sorti avverse, in un misto di ammirazione e tristezza.
    Perdere due persone care. Ne sarebbe morta -e forse probabilmente perché aveva solo due persone care al mondo.
    Il dispiacere capì ben presto di non poter liberarsi di quel corpo attraverso le lacrime, allora protestò arrivando allo stomaco, causandole una sorta di fitta che le impedì anche di guardare il contenuto del suo bicchiere. Era nauseata. Una sola persona non dovrebbe mai soffrire così tanto.
    «Spero non abbia figli: saprà che vivere senza madre è brutto...».
    Fu tutto ciò che riuscì ad affermare in un tono estremamente cupo, con un linguaggio così elementare (brutto al posto di un aggettivo che avrebbe meglio espresso il suo pensiero) da essere alieno alla sua persona.
    «A quanto pare tutte le persone che amo o rispetto hanno la tendenza a morire terribilmente. Le consiglio di non piacermi troppo, signorina!»
    Chiuse la bocca, scoprendo solo in quel momento di averla lasciata semiaperta dopo quel macabro racconto, per poi cimentarsi in un forzoso sorriso.
    «Io non morirò...».
    "...Così lei potrà essermi amico e io potrò esserle amica e non dovrà temere di nuovo la solitudine".
    Lo reputò un pensiero infantile, e non riuscì ad esprimere nulla a riguardo, nonostante la sincerità che avrebbe segnato ogni singola parola.
    «Devo diventare forte per stare accanto a mio fratello e per non dargli problemi. Io non moriro, quindi posso...»
    "...Posso starle vicino e qualche volta addirittura aiutarla!".
    «...Offrirle altro latte?»
    Chi era, perché aveva omesso qualcosa (o mentito). Nulla aveva importanza.

    Scusami anche tu per il ritardo, ma tra studenti ci si capisce :patpat:
    Kiria non sa che la moglie lo odiava, quindi ha preso la cosa malissimo, immaginando il matrimonio di Rutja come solo una dodicenne può fare
     
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    19.5 UN ALTRO GIRO DI LATTE



    K: Spero non abbia figli: saprà che vivere senza madre è brutto...

    Feci un semplice cenno di no con il capo, per indicare che il matrimonio non aveva dato vita a nessuna prole, per vari motivi. Perché era durato circa due giorni, perché io ero del tutto impotente e perché mia moglie era lesbica. In nessun modo avremmo potuto procreare, assolutamente. Immaginavo che un discorso del genere fosse troppo complicato o quanto meno "inappropriato" per una ragazzina come lei, quindi mi limitai al solo gesto con il capo. Che in qualche modo era riferito anche alla seconda parte della frase. Vivere senza madre può essere stato terribile per la maggioranza delle persone che ha provato questa esperienza, ma non certo per me. Del resto quando una persona passa tutto il tempo a picchiare i suoi figli senza apparente motivo, è difficile considerarla davvero una madre. L'immagine del momento in cui io la uccidevo per sbaglio mi passò rapidamente in mente e mi sentii pervaso da uno strano sentimento di sollievo. Mi capitava sempre quando pensavo a quell'evento passato. In ogni caso non condivisi tutto ciò con la ragazzina. Probabilmente la sua frase aveva un qualche riferimento auto-biografico, quindi non era il caso di propinarle l'ennesimo trauma. L'avevo tormentata abbastanza, immaginai, soprattutto con la mia ultima frase. La sua risposta successiva mi fece pensare di essermi sbagliato e in qualche modo ne fui anche contento.

    K: Io non morirò..

    Fui sorpreso da quella frase, che mi confermò quello che per me era il carattere fondamentale di quella ragazzina, l'innocenza. Un pensiero così elementare e diretto, quasi ingenuo nella sua semplicità. Non c'era niente di male nel non voler morire, ma nessuno poteva essere sicuro di riuscire a farlo. È così che funziona il mondo, il Tristo Mietitore è sempre lì che osserva tutti quanti, in attesa del momento giusto per prenderci. Nessuno poteva sfuggirgli. Solo il professore era riuscito a farlo, prima superando il secolo di vita grazie alle sue ricerche e poi rinascendo, seppur in forma parziale. Ed ero sicuro che prima o poi sarebbe riuscito a tornare pienamente in questo mondo, di modo da poter raggiungere il suo scopo in prima persona, senza più necessità del mio aiuto incompleto.

    K: Devo diventare forte per stare accanto a mio fratello e per non dargli problemi. Io non moriro, quindi posso...

    Mi piaceva la determinazione di quella giovane ragazza. I suoi occhi erano forti, mostravano una passione superiore a quella della maggioranza delle persone. Una rabbia giusta e innocente. Non colpevole, come quella di tutti gli altri esseri umani sulla terra, io compreso. Era piacevole pensare come anche una persona come lei esistesse, una persona libera dai gretti interessi personali, interessata davvero al prossimo e capace così tanto di empatia.

    K: ...Offrirle altro latte?

    Mi alzai in piedi all'improvviso, con un espressione in volto che voleva essere gentile. Chissà se c'ero riuscito...

    Oh, no, non posso proprio permetterlo! Lei è un ospite, offro io! Sempre latte freddo?

    Una volta verificato che non si opponesse alla mia idea e il tipo di bevanda che desiderava, mi sarei diretto al bancone, per ordinare un nuovo giro per entrambi. E, proprio mentre camminavo, Boris si fece sentire dopo tutto quel tempo.

    B: Hey, ragno, ti rendi conto di cosa stai facendo? Ti sei fatto un'amichetta? Pensi di potertelo permettere?

    Non capii dove volesse arrivare il vecchio gangster, che rispose alla mia confusione con un semplice “idiota”.

    Forse stai insinuando che l'avere una persona cara possa distogliermi dal mio obiettivo? Pensi questo? Se è così, ti sbagli di grosso. Io sono pronto a morire anche subito per il professore, se questo è funzionale al suo piano. Uccidere una ragazzina che stimo molto e che ritengo essere una delle poche persone degne di rispetto sulla faccia della terra... Non mi pare sia poi un gran prezzo da pagare... Pregherò perché non venga mai il momento in cui lei sia tra me e il nostro obiettivo, ma nel malaugurato caso in cui ciò avvenga, io non esiterò neanche un secondo.

    B: Certo, come no... Semplice parlare, vedremo quando verrà il momento! Ti assicurò che mi farò grasse risate della tua sofferenza!

    Cercai di ignorare le parole dell'uomo. Quando voleva sapeva essere davvero cinico e spietato, iniziare una discussione con lui in quel momento non aveva alcun senso. Molto meglio tornare a parlare con qualcuno che non cercava di estenuarti solo per puro diletto. Quindi, una volta tornato al tavolo con i due bicchieri nuovamente pieni, avrei iniziato un nuovo discorso con la giovane chiamata Kiria.

    Bene... Adesso però vorrei farle io qualche domanda! Le va di rispondermi?

    Il quesito era da intendersi letteralmente. Non volevo mettere troppo a disagio quella ragazza, quindi se ella avesse risposto di no, avrei davvero evitato di portare il discorso verso lidi inesplorati. Se invece avesse accettato di esporsi ai miei dubbi, mi sarei fatto avanti senza esitazioni. La sua figura mi incuriosiva, era radicalmente diversa dalle altre persone che avevo conosciuto in vita mia. Quindi ero desideroso di comprenderla anche solo un minimo di più.

    Cosa l'ha portata a divenire shinobi a una così giovane età? E come mai si trova qui, adesso, in questo posto ai confini del mondo civile?


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    K: Kiria Yami
    B: Boris Saijin
     
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    Quando Rutja si alzò, facendo sentire Kiria ancor più piccina data le corporature così differenti dei due, l'Uchiha ponderò per alcuni istanti l'idea di averlo offeso in qualche modo.
    Era davvero nuova a conversazioni così lunghe con un perfetto estraneo, e aveva considerato solo in quel momento l'idea che non stava ponderando con estrema meticolosità ogni parola. Era una conversazione normale tra due persone normali, o una conversazione anormale tra due persone anormali, visto che intorno a loro perni delle discussioni erano sesso (c'era una signorina, di grazia!), alcolici, penuria di soldi (non sufficiente ad allontanarli dai litri di "roba" che bevevano ad ogni modo) e poi di nuovo sesso in tutte le sue varianti.
    Conversazione anormale tra due persone anormali. Kiria provò un misto di sollievo e felicità nel rivedersi come tale.
    Il volto di Rutja allontanò l'idea che potesse esser offeso, sembrando quasi felice di poter prolungare il tempo insieme alla ragazzina, mentre si offrì di darle altro latte freddo. Annuì contenta, destinandogli un ampio sorriso.
    Attese Rutja in silenzio, inizialmente guardandolo con aria incuriosita; poi, consapevole di quanto potesse esser maleducato quel suo sguardo scrutatore, si voltò per vedere l'albero che silente sembrava sorvegliare un ampio spazio vuoto.
    Quando Rutja tornò, si voltò per prendere il suo latte, sorridendo nuovamente. Erano sorrisi sinceri, e si trovò stranamente a proprio agio nel farli.
    «Grazie mille, lei è molto gentile».
    I ragazzini, Kiria per prima, hanno bisogno di esprimere il proprio pensiero su un gesto o su di una persona, spogli da quei freni inibitori che con il tempo la società si occuperà a ricreare.
    «Bene... Adesso però vorrei farle io qualche domanda! Le va di rispondermi?».
    Kiria lo guardò per un attimo confusa: voleva davvero sapere qualcosa di lei?
    «S... Sì, certo».
    Si trovò stupida in una risposta così poco articolata, ma il bisogno di rispondere presto e di assumere un'espressione meno inebetita la spinsero a badar poco alla forma delle proprie parole. Il ragazzo non esitò a porle le proprie domande, convincendo Kiria sulla sincerità del suo interesse.
    «Cosa l'ha portata a divenire shinobi a una così giovane età? E come mai si trova qui, adesso, in questo posto ai confini del mondo civile?».
    La prima domanda era quella a cui era più abituata e tuttavia la più difficile a cui rispondere. Avrebbe dovuto lavorarci su sulla spiegazione, dedicare un intero pomeriggio alla ricerca di una verità che non entrasse troppo in particolari come "la mia famiglia mi vorrebbe morta, per cui questo è un disperato tentativo di piacere o quantomeno di imparare a difendermi".
    Per il momento, occorreva dedicarsi sulla seconda parte della risposta, quella che comprendeva la difesa da qualcosa. Ma da cosa dovrebbe difendersi mai una ragazzina di dodici anni? Il bulletto dell'accademia? L'ultima bambola dai prezzi esorbitanti?
    Non sapeva e non voleva mentire, e questo rappresentava per lei un piccolo difetto: Rutja aveva sicuramente prestato attenzioni a cosa dire ad un estraneo, mentre lei non ne era capace, non con un estraneo così piacevole!
    Bevve un po' di latte, come nel tentativo di cercar tempo per formulare una risposta che potesse risultare vera e completa.
    «Voglio imparare a difendermi da sola, senza esser di peso per le persone che amo. Nessun ideale sulla pace nel mondo o sciocchezze simili, in cui in genere son portati a credere i miei coetanei. Mio fratello maggiore è tutto ciò che ho, non posso permettergli di rischiar la vita a causa mia».
    C'erano tante cose da cui difendersi nel mondo, e una persona dal passato tormentato come Rutja l'avrebbe capito senza troppi problemi. Ora doveva rispondere alla seconda domanda, e lì non ebbe esitazioni di sorta. Le faceva piacere sfogarsi con qualcuno.
    «Ed è proprio a causa di mio fratello se sono qui, da sola. Mi aveva promesso avrebbe avuto l'intero giorno da dedicarmi per portarmi in giro, e magari avremmo anche potuto allenarci. Invece è andato via con uno di quei fastidiosi tizi mascherati che compaiono dal nulla» spiegò con volto cupo. Provava una profonda gratitudine verso Rutja, poiché l'aveva salvata dalla solitudine di quella giornata che prometteva tristezza, nonché dal tocco sudicio di qualche mano dei presenti. Si sentì poi in colpa per aver parlato di Deichi in quel modo, lasciando che si potesse aver di lui l'impressione di un ragazzo che abbandona la propria sorella minore. Anche Rutja, dopotutto, era stato fratello maggiore (un ottimo fratello maggiore, ipotizzava Kiria), quindi probabilmente avrebbe potuto capire meglio di lei cosa muovesse Deichi.
    «Non che sia una cattiva persona! In genere mantiene sempre le promesse, quindi suppongo si sia trattato di qualcosa di veramente importante... Solo che mi manca tanto... Passiamo davvero poco tempo insieme da quando nostro padre è morto...».
    Divenne nuovamente cupa, seppur non per il pensiero della morte del padre. Quello veniva considerato da Kiria come un evento normale nella sua vita, paragonabile al sole che sorge o al doversi nutrire per sopravvivere.
    I padri ti mettono al mondo, lasciano tu viva nella solitudine e poi muoiono, lasciandosi dietro nient'altro che qualche ricordo che il tempo avrebbe cancellato.
     
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    19.6 BROTHERHOOD



    K: S... Sì, certo.

    Le parole della giovane erano tentennanti, lo sguardo confuso. Rimasi un attimo a riflettere se fosse davvero il caso di porre le mie domande, poi decisi di farlo. Probabilmente non le faceva piacere parlare di sé e la capivo benissimo. Però quello era un momento particolare, un momento in cui potevamo negare quello che eravamo sempre stati per entrare in una piccola oasi di comprensione reciproca. Era un'occasione unica, che non si sarebbe mai più ripetuta. Dal giorno dopo ognuno sarebbe tornato al proprio mondo di provenienza, senza mai più punti di contatto, pensai. Il momento perfetto per mostrare le proprie debolezze e le proprie convinzioni.
    Lei rimase un attimo a riflettere in silenzio, alla ricerca probabilmente delle migliori parole da usare. Entrambi bevemmo un sorso, in attesa della risposta, che dopo poco infine giunse. I suoi occhi erano sinceri mentre parlava, non c'era dubbio che ogni parola pronunciata corrispondesse assolutamente alla verità. Lo leggevo nel suo sguardo, puro e innocente, come lei.

    K: Voglio imparare a difendermi da sola, senza esser di peso per le persone che amo. Nessun ideale sulla pace nel mondo o sciocchezze simili, in cui in genere son portati a credere i miei coetanei. Mio fratello maggiore è tutto ciò che ho, non posso permettergli di rischiar la vita a causa mia.

    Sorrisi di fronte all'ultima frase. Era raro trovare una persona così schiettamente altruista, anzi era la prima volta che ne conoscevo una così. Ero contento di averla conosciuta e anche se probabilmente non ci saremmo mai più visti mi faceva davvero piacere. Anzi, forse era proprio quello a rendermi contento. Come avversaria la sua generosità l'avrebbe resa ostica da contrastare, mentre da alleata avrebbe potuto crearmi non pochi problemi per la sua innocenza. Per non rovinare questo momento la cosa migliore sarebbe stata farlo rimanere l'unico.

    K: Ed è proprio a causa di mio fratello se sono qui, da sola. Mi aveva promesso avrebbe avuto l'intero giorno da dedicarmi per portarmi in giro, e magari avremmo anche potuto allenarci. Invece è andato via con uno di quei fastidiosi tizi mascherati che compaiono dal nulla.

    Guardai il suo volto incupirsi, presa da una sofferenza morale di cui era facile indovinare la provenienza. Però capii anche il punto di vista di quel fratello sconosciuto. Anch'io avevo dovuto lasciare più volte il povero Jushiro da solo per diverse ore, per andare a cercare qualcosa da mangiare per entrambi. Mi faceva sempre male lasciarlo lì, malato com'era, ma non c'era alternativa. Eravamo soli al mondo. Ero quasi sicuro che il discorso fosse diverso per il fratello di quella Kiria, ma la sostanza sottostante era la stessa. Per un attimo mi sembrò che lei non avesse capito il motivo della sua decisione, cosa che mi fece venire il dubbio che fosse stato così anche a suo tempo per il mio di fratellino. Per fortuna la correzione della konohana mi diede ampie speranze che anche Jushiro mi avesse compreso, a suo tempo.

    K: Non che sia una cattiva persona! In genere mantiene sempre le promesse, quindi suppongo si sia trattato di qualcosa di veramente importante... Solo che mi manca tanto... Passiamo davvero poco tempo insieme da quando nostro padre è morto...

    Sorrisi amaro di fronte alle parole della ragazzina, che nel mentre si era fatta davvero triste. Sapevo cosa voleva dire, anch'io avevo perso mio padre in giovanissima età. Ma era soprattutto il riferimento al fratello ad avermi toccato nel profondo, per affinità di esperienze mi sentivo di parteggiare per lui e quindi di provare a difenderlo.

    Non conosco suo fratello di persona, ma sono certo che sia lei il motivo per cui ha accettato del lavoro anche in vacanza... Sicuramente vuole proteggerla e prendersi cura di lei, è così che si comporta un fratello.

    Presi un secondo di pausa, per formulare meglio la frase seguente. Era qualcosa su cui mi era capitato di riflettere a lungo, al tempo in cui Jushiro era ancora con me. La risposta che mi ero dato allora, per quanto parziale, mi sembrava adatta al caso dei due konohani.

    Provi a pensare dalla sua prospettiva: se è qualcosa per cui è disposto a rinunciare al prezioso tempo con la sua sorellina, deve essere di sicuro una cosa importante, a cui non poteva rinunciare per niente al mondo. Probabilmente anche a lui, lei manca tanto... Non può essere altrimenti...

    B: Ma sentilo... Com'è che linguasecca oggi è così in vena di parole? Quasi non ti si riconosce!

    Appena finii la mia frase, il vecchio gangster proruppe in una risata derisoria e mi propose una domanda interessante. Perché uno come me, che di solito provava un forte senso di fastidio e irritazione all'idea di interagire in qualsiasi modo con altri esseri umani, adesso provava un sincero interesse nella discussione con quella ragazzina? Forse perché era un giorno di vacanza, uno dei pochi in cui mi potevo permettere di tentare qualcosa di nuovo, ma questa spiegazione non bastava. C'era qualcosa in lei di particolare. Probabilmente mi ero rivisto nella situazione di quei due fratelli, che mi ricordava me e il mio. Oppure perché lei mi sembrava così simile a come ero io in passato, quando avevo la sua età. Sì, forse era quello.

    B: TU? LEI? AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHA!!! Questa è la cosa più ridicola che abbia sentito in vita mia!

    L'ex gangster continuò a ridere sguaiatamente e non sembrava avere la minima intenzione di fermarsi. Non era semplice parlare con una persona che faceva così rumore direttamente nel cervello, quindi gli chiesi di fare silenzio. Minacciai anche di disattivarlo, nel caso non avesse accettato di chetarsi.

    B: Va bene, va bene... Di solito ascoltare i tuoi pensieri merdosi di continuo mi fa vomitare, ma oggi sono pensieri merdosi divertenti, quindi non voglio perdermeli... Starò zitto, ma sappi che stai pensando una marea di cazzate!

    Fui sollevato della decisione dell'uomo, anche se le sue parole mi diedero non poco fastidio. Come praticamente ogni volta che apriva bocca. In ogni caso mi accorsi che durante quel breve alterco dovetti aver assunto una espressione decisamente infastidita, forse quasi sofferente. Normale, visto che c'era un vecchio che sghignazzava ad altissimo volume nel mio cervello, però questo lei non lo poteva sapere.

    Scusi, ho avuto un attimo di mal di testa, ma adesso sto meglio...

    Lanciai questa semplice giustificazione, sorprendentemente sensata, poi cercai di continuare il discorso. Mi faceva piacere parlare con una come lei, anche se la reazione di Boris mi aveva fatto venire il dubbio che non fosse per il motivo a cui avevo pensato prima. Poco importava, non avevo niente da fare quel giorno ed ero sempre più curioso di poter conoscere di più di quella Kiria.

    Che tipo di persona era suo padre? E suo fratello? So di stare ponendo delle domande abbastanza sensibili, quindi se non vuole parlarmene lo capisco...



    Legenda
    K: Kiria Yami
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    «Provi a pensare dalla sua prospettiva: se è qualcosa per cui è disposto a rinunciare al prezioso tempo con la sua sorellina, deve essere di sicuro una cosa importante, a cui non poteva rinunciare per niente al mondo. Probabilmente anche a lui, lei manca tanto... Non può essere altrimenti...».
    Kiria sorrise vistosamente, nella più totale incapacità di celare l'entusiasmo che quelle parole le donavano. Rutja era stato un fratello maggiore, e questo portava Kiria a ritenerlo una sorta di "Deichi altrui" che non avrebbe saputo descrivere in altro modo. Così, quelle parole le sembravano incredibilmente vere, come se fosse stato suo fratello stesso a proferirle: lei mancava a Deichi. L'idea di punirlo con i suoi micidiali biscotti lasciò spazio ad un forte desiderio di tornare a casa, aspettarlo e abbracciarlo con quanta forza disponesse, per poi ringraziarlo dei sacrifici ed asserire un improvviso "mi manchi anche tu".
    Mentre la sua fantasia puerile le proponeva liete immagini familiari, notò che i lineamenti di Rutja parvero contorcersi in un'espressione che pareva ora dolorante, ora infastidita (mentre con tutta probabilità lei doveva averne assunta una molto inebetita a causa dell''improvvisa ondata di gioia).
    Cominciò a chiedersi se non fosse stata lei la fonte di quella sorta di disagio che ora andava pian piano svanendo, liberando il volto del ragazzo da quell'aria seccata, ma fu Rutja a rompere per primo il silenzio, informandola su un "attimo di mal di testa", informazione che non rese l'Uchiha più tranquilla: non le piaceva non conoscere la causa di qualcosa, in un irrefrenabile bisogno -quasi ossessione- di conoscenza che l'aveva spinta a divorar libri su libri, nel tentativo di colmare le sue lacune. Si trovò così a dover affrontare la consapevolezza che nulla sapeva su mal di testa improvvisi e passeggeri, cosicché non poté far altro che augurarsi che si trattasse davvero di qualcosa di superficiale.
    «Spero non sia nulla di grave» affermò in un debole sussurro, portando dietro l'orecchio una ciocca di capelli che aveva preso a coprirle parte del volto.

    «Che tipo di persona era suo padre? E suo fratello? So di stare ponendo delle domande abbastanza sensibili, quindi se non vuole parlarmene lo capisco...».
    «Che tipo di persona era... mio padre?» ripeté inebetita, come per accertarsi di aver ben compreso la domanda.
    Che tipo di persona era suo padre?
    Era la prima volta che si trovava a dover parlare direttamente di suo padre, scoprendosi totalmente incapace nel descriverlo. Il ricordo del suo cadavere in quel decoroso sonno eterno era ancora vivo in Kiria, sicché anche nel momento prima della sepoltura pareva aver impressa sul volto quell'espressione di delusione verso di lei.
    Era stato un uomo violento, ma solo nei momenti in cui Kiria meritava un uomo violento. Quando faceva domande di sorta, quando faceva piccoli rumori mentre vi erano ospiti, quando il pasto non corrispondeva alle aspettative. Doveva esser stata davvero una bambina cattiva, e ancora ricordava il disprezzo impresso in quegli occhi neri quando lei osò chiedere di sua madre.
    Rabbrividì vistosamente, forzandosi di ricordare suo padre anche in altri momenti.
    Ed eccolo venir fuori dalla nebbia dei ricordi d'infanzia un uomo pacato e taciturno, che si limitava semplicemente ad ignorarla, come se lei non esistesse.
    «Violento quando esistevo e pacato quando ero un fantasma ai suoi occhi...» si trovò quasi a sussurrare atona con lo sguardo perso nel vuoto: lo stava ammettendo a se stessa, prima ancora di risponder alla domanda di Rutja.
    Ed era esattamente ciò che lei rappresentava per quell'uomo: il fantasma di una donna il cui volto era fin troppo somigliante a quello di sua figlia, il fantasma di un amore mai provato, il fantasma di un uomo vanaglorioso ora costretto a nascondersi da se stesso.
    Si chiese poi se fosse corretto parlare di un morto in quel modo, dando di lui un'immagine forse ingiusta: era la descrizione di una ragazzina quella, e forse si rispondeva in modo più oggettivo ad una simile domanda. E qui si riproponeva la medesima domanda: che tipo di persona era suo padre?
    «Era un uomo forte e deciso, dopotutto» aggiunse, forzandosi in un tono gentile che risultò palesemente falso. Avvertì quelle parole come proferite da un'altra bocca, così lontane dal suo reale pensiero, e si sentì in dovere di cambiare argomento, nell'illusione che quella frase potesse come eclissarsi perché poteva esser vista quasi come una bugia -non volontaria o costruita, ma pur sempre una bugia.
    «Io... non lo odio. Non l'ho mai odiato» confessò, tenendo lo sguardo basso, quasi stesse ammettendo un imperdonabile peccato. Ora che l'aveva detto a qualcuno, si sentiva meglio, quasi più leggera: poteva rispondere anche all'altra domanda.
    «Per quanto riguarda mio fratello Deichi, è una persona fantastica: ha fatto davvero tanto per me. Rispetto a mio padre è molto più permissivo: mi permette di uscire di casa, di allenarmi e di esporre i miei pensieri, anche se alcuni comportamenti lo rendono eccessivamente protettivo. A volte tende ad esser un po' brusco e taciturno, ma lavora davvero tanto...» la sua voce si rivestì di nuova gioia nel parlare del fratello, come se la malinconia nata dal ricordo del padre fosse svanita di fronte ad un presente ben più lieto.
    Quelle domande, inoltre, animarono la sua curiosità verso il fratello defunto di Rutja; adesso si sentiva meno indiscreta nel porle, quasi come se l'avesse in qualche modo autorizzata a chiedere.
    «Suo fratello, invece, che tipo era?».
     
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    19.7 SHE AND I JOINED IN NOSTALGIA



    K: Che tipo di persona era... mio padre?

    L'espressione turbata della ragazzina era più chiara di qualsiasi parola. Non era a suo agio, non c'era dubbio alcuno. Cercai di capire se fosse il caso di ritirare la domanda, ma lei sembrava starsi interrogando seriamente sul problema, quindi non osai farlo. Non ero abituato ai discorsi con gli altri esseri umani, quindi ero in difficoltà su sottigliezze del genere.

    K: Violento quando esistevo e pacato quando ero un fantasma ai suoi occhi...

    Le sue parole furono dirette, senza fronzoli. Aveva dipinto un quadro perfetto con una singola frase. Capii tutto, o almeno mi sembrò così. Del resto anch'io avevo vissuto un'esperienza simile, anche se non uguale. Infanzie devastate dalla violenza non erano eccezionali in questo mondo, tutt'altro. E spesso colpevoli principali erano i genitori stessi, chi in un modo, chi nell'altro.

    K: Era un uomo forte e deciso, dopotutto

    A questo punto però lei si sentì in dovere di correggere il tiro, ma era più che evidente che rappresentassero una specie di menzogna. Non era capace di mentire, lei, questa fu la conclusione che trassi dal tono così strano usato da lei. Non capii il bisogno di questo riguardo che lei aveva usato nei confronti del suo defunto padre. La frase seguente avrebbe chiarito le cose.

    K: Io... non lo odio. Non l'ho mai odiato

    Rimasi immobile, con lo sguardo vuoto. Non lo odiava? Perché mai? Come poteva? Non capivo, non potevo capire. Io avevo odiato con tutto me stesso mia madre, ogni singolo attimo della mia esistenza, per quello che lei mi aveva fatto. Come poteva non odiarlo? Lo aveva perdonato? Non capivo. Arrivava fino a tal punto la sua innocenza? Era in grado di superare l'odio, la sopraffazione e la violenza, tenendo con sé tutto quanto e riuscendo a utilizzare ogni esperienza come mezzo per crescere, per diventare più forte?
    Le mie domande rimasero senza risposta, perché lei passò quasi subito alla seconda parte del mio quesito.

    K: Per quanto riguarda mio fratello Deichi, è una persona fantastica: ha fatto davvero tanto per me. Rispetto a mio padre è molto più permissivo: mi permette di uscire di casa, di allenarmi e di esporre i miei pensieri, anche se alcuni comportamenti lo rendono eccessivamente protettivo. A volte tende ad esser un po' brusco e taciturno, ma lavora davvero tanto...

    Vidi la konohana illuminarsi come non mai, mentre parlava del fratello. Era una descrizione molto lucida, si vedeva proprio che a farla era stata una persona riflessiva e intelligente. Era evidente che dovevano avere un rapporto ricco e profondo, ne fui contento. Ero anche un po' curioso di conoscere questo personaggio, anche se ero sicuro che sarebbe stato meglio di no. Quella Kiria era una persona molto matura, ma era l'incarnazione dell'innocenza. Uno sguardo più scafato avrebbe individuato subito le mie contraddizioni e mi avrebbe costretto a mettermi sulla difensiva. Non era quello che volevo, era rischioso. Non potevo permettermi alcun rischio, non mi era concesso, su questo punto il Professore era stato molto chiaro.

    K: Suo fratello, invece, che tipo era?

    La domanda della ragazzina mi prese alla sprovvista, nonostante fosse abbastanza normale che una questione del genere venisse fuori. Per qualche secondo rimasi fermo a riflettere, cercando di capire quale fosse la cosa giusta da dire. Non potevo fuggire, né volevo farlo. Quella era la prima occasione in cui avevo avuto occasione di parlare di me stesso e delle mie esperienze. La prima e l'ultima, supposi.

    Io avevo due fratelli, uno maggiore e uno minore. Il più grande si chiamava Jun, aveva due anni più di me. Era un bambino solare e deciso, ci ha sempre difesi... ed è per questo che è morto.

    Il tono della voce era rimasto calmo, tranquillo. Erano eventi troppo lontani perché potessi farmi prendere dalle emozioni in maniera eccessiva. Ricordavo ancora l'immagine del povero Jun mentre veniva sommerso dai feroci colpi di nostra madre, che gli distrussero un numero spropositato di ossa e gli strapparono la vita. Era stata un'esperienza traumatica, al tempo, ma ora era passato davvero troppo tempo.

    Il più piccolo, Jushiro, era molto più calmo e introverso. Certo, giocavamo e ci divertivamo insieme, ma non era uno di quelli che si fa molti amici. Non era molto intelligente, né atletico, però aveva una sincerità non comune e una generosità genuina. Purtroppo la sua salute era molto cagionevole, lo era sempre stata. E quindi...

    Ogni tanto, mentre parlavo, avevo gettato uno sguardo agli occhi della ragazzina. Erano vivi, curiosi, imploravano per la verità. Mi sentivo in colpa a negargliela. Non c'era motivo alcuno di nasconderla, non c'era alcuna possibile ripercussione negativa. Inoltre aveva ragione Boris, il perdono che avevo ottenuto in precedenza era troppo parziale per essere sufficiente. Lei mi aveva capito, ma non era detto che capisse e perdonasse anche quest'ultima cosa. Era giusto che lei sapesse. E che mi dicesse quello che pensava davvero.

    Mi devo scusare con lei. Prima le ho nascosto una cosa... ma adesso voglio riparare. Mio fratello non è semplicemente morto. Negli ultimi mesi della sua vita era talmente malato che non riusciva più ad alzarsi da letto. Io non riuscivo sempre a essere al suo fianco e per tante ore ero costretto a lasciarlo solo, nella speranza di trovare qualcosa da mangiare. Il tempo passava e le sue condizioni peggioravano costantemente, sempre più in fretta. Soffriva, soffriva tremendamente. Ad un certo punto mi accorsi che non sarebbe mai potuto guarire, ma continuai a cercare di accudirlo come sempre, nella speranza di un qualche miracolo. Finché qualcosa non avvenne davvero. Un signore mi aveva avvicinato un giorno, chiedendomi di entrare nella sua banda criminale, visto che a suo dire avevo i piedi svelti. Non avevo altra scelta se non accettare, se non l'avessi fatto sarei morto di fame nel giro di un mese. Però c'era un grosso problema... non potevo portare Jushiro con me, né abbandonarlo a se stesso. Non avevo davvero altra scelta. Appena potei, lo andai a prendere e lo portai fuori dal villaggio. Gli feci fare una passeggiata, portandolo in braccio. Era leggerissimo, ormai la malattia gli aveva sottratto tutte le sue energie. Passammo una bella giornata insieme, anche se fu molto corta. Dopo poco lui si addormentò, esausto. Io avevo un kunai con me... lo sgozzai, mentre dormiva. Fu terribile, ma lui non soffrì più...

    Il tono durante tutto il racconto fu cupo, molto partecipato. Quello era un dramma ancora vivo in me, che di solito cercavo di allontanare dai miei pensieri. Era il dilemma che mi aveva tormentato a lungo. E che finalmente stava per avere una risposta, speravo.

    Ho sbagliato? Ci ho pensato davvero tanto, ma non riesco ancora a capirlo. Sono convinto che non ci fosse altro modo, ma... è davvero così? Lei... lei cosa ne pensa?

    Dopo aver mantenuto basso lo sguardo, durante tutta la narrazione, lo alzai nel momento dell'ultima domanda, piantando i miei occhi nei suoi. Ero alla ricerca di risposte, anche negative. Mi avrebbe aiutato ad andare avanti, pensavo.

    B: Cuore spezzato in arrivo tra: tre... due... uno!



    Legenda
    K: Kiria Yami
    B: Boris Saijin


    OT
    Scusa il ritardo... Il titolo è di nuovo un acronimo, questa volta con il cognome del mio pg xD. "Lei e io ci unimmo nella nostalgia" (più o meno). Mi sa che è parecchio sgrammaticata come frase e non centra neanche troppo con il contenuto del post , ma ne sono soddisfatto xD.
     
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24 replies since 4/1/2015, 23:08   466 views
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